Da un porto all’altro

Quanti episodi, di per se banali, rimangono impressi nella memoria; non è comodo vivere in barca, lo spazio è angusto. La casa in cui si vive si muove di continuo, ora dolcemente, ora a scossoni: va su e giù, sbanda da una parte e da un’altra. E’ facile perdere l’equilibrio, si può scivolare e farsi male, bisognerebbe sempre tenere ben saldo un appiglio, una maniglia : bisogna imparare l’arte di stare appesi, come le scimmie sui rami ( una mano per te e un’altra per il re, secondo il detto della flotta inglese ). L’uso del gabinetto con mare mosso, se si è indossata la cerata sugli abiti di lana per proteggersi dagli spruzzi della pioggia, è un’impresa, anche perché il gabinetto è per lo più angusto, e il vaso si vuota con la pompa a mano. E come si fa a cucinare gli spaghetti, far bollire l’acqua, poi scolarla, col grave pericolo di sc0ttature? Si, è bello ricordare ogni burrasca che ho attraversato, compresa quella che mi beccai in Mediterraneo, da Palermo a Cagliari. Si può fare, ma richiede doti acrobatiche, fermezza, prudenza, allenamento. La vita a bordo è incredibilmente scomoda. Perché dimenticavo di parlarne, dunque la domanda è forse più pertinente, si decide di affrontare tante scomodità, se poi ti capita un qualsiasi incidente sono cavoli amari, visto che si potrebbe farne a meno ? Rispondo: perché la scomodità fa parte del gioco. Un marinaio afferma che è lo stesso per chi si arrampica sulla vetta in montagna, quando vi sono le funivie.

Veramente, quando non avevo ancora scoperto il mare, mi arrampicavo su rocce e verticali pareti rocciose, dove non sarà mai possibile installare funivie.

Quando mi beccai di notte un forza 8, nemmeno un attimo pensai di scendere sottocoperta, nemmeno per andare in bagno: ero solo e rimasi tutta notte al timone, con le mani ghiacciate senza mai poterlo lasciare. Dopo ore di combattimento con le onde, il mare si calmò solo un poco, io mi rilassai sentendo subito un rivolo tiepido scorrere sulla mia gamba.

Un’affermazione che spesso si sente ripetere nelle scuole di vela serie, è che una persona caduta in mare è da considerarsi perduta. Molto drastica ma drammaticamente vera.

Certo sono tantissimi i casi di persone cadute in mare e recuperate. Nella maggior parte dei casi in condizioni ottimali: di giorno, in estate, con mare calmo.

Ma non sono queste le condizioni in cui di solito accade l’incidente. L’emergenza si innesca spesso in condizioni dure, quando i movimenti in coperta sono più difficoltosi a causa del mare o più incerti, di notte, a causa dell’oscurità. Spesso le due cose insieme.

Cadere in mare in queste condizioni rappresenta un incidente grave perché le possibilità di recupero sono minime.

Quindi la prima affermazione è di una banalità disarmante: in mare non ci si deve finire. Una banalità che si sconfigge con i comportamenti corretti. Di notte, o in condizioni di mare molto mosso, chi è in pozzetto o in manovra deve essere legato alla life line e deve indossare il giubbino salvagente possibilmente autogonfiabile.

Ma, se ugualmente si perde una persona in mare, occorre sapere cosa fare.

“Uomo a mare…rilevamento e distanza… salvagente in acqua… mi allontano 60 metri…poggio… abbatto…” Va bene (purtroppo) per superare l’esame per la patente nautica. Questo è quello che ci chiedono di saper fare.

Nella realtà tutto questo non ha senso. L’obiettivo vero è quello di non perdere contatto con il naufrago, di allontanarsi il meno possibile, e toglierlo dall’acqua nel più breve tempo possibile.

Negli anni sono state sperimentate diverse manovre valide (esclusa quella richiesta per conseguire la patente nautica in Italia). Fra queste, ma non è naturalmente un dogma, la cosiddetta Quick Stop, pare essere una delle più efficaci al punto da essere fortemente caldeggiata dall’ISAF. Cioè buttare sempre e subito un salvagente galleggiante sperando che l’uomo in mare lo afferri e si metta con la schiena al vento, per ritardare il raffreddamento del corpo mentre dalla barca si cerca di tornare a recuperarlo.

Una dura verità anche per chi crede che andar per mare in barca non sarà mai in pericolo, perché oggi tutte hanno il GPS ( Global Position System) ( l’ignoranza è grande anche fra persone che credono di sapere tutto lo scibile umano.

I miei genitori gestivano un’osteria, dove vissi l’infanzia e la prima giovinezza. All’inizio della guerra – 1940 – conobbi molti clienti, militari dell’Esercito, poveri fanti del sud, che venivano a scolarsi un bicchiere di vino e sfamarsi con manciate di ceci cotti al forno, inviati in pacchi via posta dalle loro famiglie. Poi vennero i giorni dei Militi fascisti, sottufficiali alloggiati nella casa del Fascio. Arrivarono anche, prima della fine della guerra, i Tedeschi, soprattutto alcuni piloti dal campo d’aviazione di Ghedi, che entravano nell’osteria la sera. Uno di essi mi prendeva sulle ginocchia, mi pettinava dicendomi che aveva in Germania un bambino della mia età. In quel tempo l’atmosfera non inquinata era tersa e la visibilità perfetta. L’inquinamento luminoso non esisteva, perché l’illuminazione pubblica era spenta. Inoltre la notte c’era “Pippo”, piccolo aereo notturno che buttava bombette sopra il tetto e al massimo rompeva qualche tegola o vetro, quando vi era una finestra non perfettamente “oscurata”. Una luce accesa poteva essere la segnalazione per aerei nemici. Per un anno circa il motore di quell’aereo notturno, impaurendomi, impediva il mio sonno. Verso la fine della guerra passavano su Montichiari i bombardieri anglo-americani per bombardare Brescia, città industriale, dove si costruivano armi e camion per l’esercito. Lo stormo di quei grossi aerei, forse una decina, volava alto e compatto e si allargava quando era su Brescia; si vedevano chiaramente le bombe scendere e si sentiva il boato a distanza, meno di 20 Km.

Era una sofferenza, mitigata solo dalla certezza che, in quel momento, noi eravamo in salvo. Cominciava così l’epoca delle incursioni aeree e l’urlo della sirena appianava di colpo le differenze sociali: tutti gli abitanti della contrada correvano nel rifugio scavato nei fianchi della collina, un rifugio privato messo a disposizione da un generoso “siòr”. Fu un’avventura vedere al buio della sera, dal colle San Pancrazio, assieme al mio amico Beppe, le luci degli aerei tedeschi, sempre una decina, decollare dal campo d’aviazione militare di Ghedi e ricontarli al ritorno: ogni sera ne mancavano due o tre. Una sera il pilota tedesco mi pettinò piangendo: disse che toccava a lui, la notte stessa, partire in missione. Non lo vidi più. Le guerre sono sempre state la rovina di milioni di persone per la volontà di potere di poche persone.

Mi fu risparmiata, fra le esperienze di guerra, una delle più spiacevoli: la fame. Vivevo in un paese agricolo della pianura padana e mio padre, come molti, la sera col buio andava in bicicletta per cascine, in cerca di farina, patate, salame, tutto ciò che fosse commestibile, pagato a caro prezzo e con un certo rischio: nacque così la borsa nera, considerata un crimine. La fame incombeva sui valligiani, dove non c’era agricoltura: si spostavano dalle valli, giungevano in bicicletta donne con enormi borse cariche di prodotti delle loro officine: posate, utensili vari e ripartivano cariche di farina e generi alimentari. Talvolta però la Squadra Annonaria, una specie di polizia politica, attiva nelle province di Mantova e Cremona, fermava i valligiani sulla strada del ritorno e sequestrava i cibi; e quelli tornavano a casa senza nulla, felici di non essere arrestati perché non si erano accontentati di procurare il cibo con le Tessere Annonarie che, nate per garantire l’equa distribuzione delle scarse risorse alimentari, garantivano sicuramente la morte per inedia. Qualcuno ha fatto denaro con questi sequestri: una delle Guardie Annonarie, secondo la gente, aveva acquistato una magnifica casa con giardino e alberi da frutto.

.Il potere fa ricchi molti “onorevoli,” non tutti, ma sempre troppi. Forse la mia perenne allergia ai partiti politici nacque dalle notizie apprese in quel periodo della mia adolescenza. Le truppe americane erano ormai vicinissime, e tutti sapevano che la guerra era finita, almeno in Italia. Non si vedevano più militari, fascisti o tedeschi, solo “partigiani” con fazzoletto rosso o verde al collo. Ma quelli che vedevo non erano stati in montagna per la resistenza ai tedeschi, erano quelli dell’ultima ora, quelli che ho sempre visto in paese, (alcuni dei quali erano stati attivisti fascisti fino a sei mesi prima), e si davano aria di guerrieri, portavano la pistola alla cintura o il mitra a spalle. Hanno fatto una “svolta politica”, secondo l’usanza italiana. E si misero a rubare anche loro, svuotando tutto il palazzo delle scuole elementari di Montichiari, adibite a caserma dei soldati tedeschi: pubblicamente facevano uscire letti militari con materassi e coperte, scrivanie e macchine per scrivere. E nessuno poteva intervenire: erano pericolosi momenti di mancanza di protezione, la legalità era scomparsa. Essi erano chiamati, sottovoce, gli “S-partigiani”.

Fu un bel giorno quando finalmente tutto il paese corse in piazza: i carri armati delle truppe americane e le camionette sfilavano rombando sull’acciottolato, e tutti in tripudio: era la fine della guerra e della paura. Sempre nel nostro edificio scolastico si installarono gli americani e per la prima volta vidi gli uomini di colore. Ero impressionato dai loro visi neri sui quali spiccavano i denti bianchissimi, dai loro modi disinvolti. Questo è uno dei tanti ricordi della seconda guerra mondiale, che credevo dimenticati, dopo mezzo secolo di assenza da Montichiari.

Da adulto penso che l’uomo sia l’animale più feroce del nostro pianeta. Gli animali carnivori uccidono per vivere. L’uomo uccide soprattutto per avere il Potere. Questo presuppone la guerra. I dittatori, da sempre, decidono di iniziare una guerra per ampliare il loro potere provocando massacri di migliaia di persone. Altri uccidono per vendetta, o per rubare i beni di un’altra persona. La mafia, lo fa per dimostrare il suo potere. Molte volte i governi iniziano la guerra per incrementare le industrie in crisi (vedi Bush) e, per avere il consenso del popolo, raccontano atti di crudeltà ed efferatezze di un dittatore, (vedi Saddam Hussein) alcune vere e alcune inventate. Fu accusato di detenzione di armi per la distruzione di massa: una pura menzogna per poter iniziare la guerra. La TV, dopo la sua nascita, fu, e può essere ancora, un grande mezzo per la diffusione di grandi bufale.

Il massimo dell’orrore sono le guerre di religione, da sempre scoppiate, come le numerose Crociate indette da Papi cristiani, per importare migliaia di “reliquie” che erano vendute a prezzi enormi. Molti dei cosiddetti crociati andavano per rubare impunemente. In questi ultimi anni è nata un’altra guerra, mai avvenuta prima: assassini che si suicidano facendosi scoppiare esplosivi sotto la giacca, per andare in paradiso, convinti e pagati da capi che, di sicuro, non si suicideranno mai. Loro probabilmente odiano la nostra libertà di vita, e lasciamo libere le nostre donne di scegliere di vestire come meglio credono.

La pima volta che montai a cavallo avevo 30 anni e il maestro d’equitazione mi guardava con aria di compatimento. Probabilmente aveva altri allievi in età matura con pancetta che avrebbero ottenuto migliori risultati in palestra o pedalando all’aria aperta. Io cercavo l’emozione, sognavo il piacere delle cavalcate a briglia sciolta in spazi aperti, come nelle vecchie pellicole western. Ogni domenica frequentavo un galoppatoio e cominciai in esso i primi passi nel pavimento coperto da mezzo metro di segatura. Ottenere una postura eretta, tenere le briglie in modo appropriato e soprattutto “battere la sella” non fu semplicissimo; per qualche giorno sento i muscoli delle gambe e i glutei doloranti, poi i primi salti all’ostacolo, divertenti e spesso il cavallo intuiva la mia imperizia e si bloccava di colpo a ridosso dell’ostacolo obbligandomi a un atterraggio volante dall’altra parte. Venne poi il tempo delle prime uscite con altri allievi accompagnati dal maestro e più tardi finalmente potei uscire da solo; uno dei ricordi piacevoli in campagna quando adocchiai un grosso gelso carico di more. Mi avvicinai e ci satollammo, con i frutti per me, che coglievo facilmente stando in sella, e lui con le foglie.

Passarono anni senza più cavalcare, il lavoro prendeva tutte le mie giornate, solo la sera potevo essere libero e mi appassionai al karate; le emozioni che mi regalava quell’allenamento bastavano a riempire le mie sere- Dopo tre anni ebbi la mia cintura nera: fu a causa di un incidente a cavallo, noleggiato una domenica, dopo tanto tempo che non cavalcavo, che mi ruppi il femore e fui costretto a rivedere le mie scelte di vita..

Il gruppo dei 10 cavalieri doveva correre tra le file ordinate dei pioppi e l’ultimo che legherà le briglie al recinto dell’osteria dovrà pagare il caffè agli altri nove.

Il cavallo stretto fra le mie gambe mi fa sentire tutta la forza dei suoi muscoli, l’ebrezza della corsa nel vento e il battere degli zoccoli sul terreno erboso mi rendono pieno di gioia, la vita è esaltante, batto la sella con piacevole sforzo e non vorrei più fermare il grande animale che sento di dominare, ma errai: per un motivo che non sto a spiegare, il cavallo punta gli zoccoli, si gira di 90 gradi e io volando vedo il tronco del pioppo che si avvicina velocissimo, batto con il femore destro e cado a terra di schiena; scorgo a fatica la gamba colpita che più corta di una spanna e molto ingrossata . Un lungo incubo fino all’arrivo di soccorsi: sicuramente nel vedere il cavallo senza il cavaliere verranno. Qualcuno venne e chiamò l’ambulanza- morsi il labbro per non urlare nel trasferimento sulla barella. Poi sulla autolettiga ad ogni bucai o dosso, dolori tremendi da Capriano del Colle, dove c’era il pioppeto, fino all’ospedale a Brescia.

Al risveglio, dopo l’intervento guardai le mie gambe e non volli credere ai miei occhi: la parte inferiore del femore, con ginocchio e piede, erano girati di 35 gradi verso l’interno, cioè verso la gamba sinistra: quella che, prima di entrare in ospedale era sana ! Aveva il piede che cadeva vero il basso, penzolava in giù, inerte e freddo.

Che cavolo c’entra il piede sinistro con la frattura della gamba destra?

Dopo esami vari nei vari reparti ospedalieri spinto con la carrozzella la verità viene a galla. Due errori del medico ortopedico:

1 ) ha riattaccato il femore con viti e piastra metallica, come di norma, ma con intra rotazione di 35 gradi. In pratica ginocchio e piede sono girati verso la gamba sinistra.

2 ) Legando la gamba sana sull’apposito cavalletto per fermare il corpo del paziente, è stata omessa l’imbottitura necessaria per proteggere da strappi allo SPE, un nervo che comanda gli impulsi al piede. Il piede rimane in “equinismo” proprio com’è messa la zampa degli equini. Ebbi 2 incidenti : il primo col cavallo, il secondo con l’asino che mi ha operato. E non esagero, visto che quel signore in pochi mesi ha sbagliato una quarantina di’ interventi ed è stato costretto a dimettersi.

Unica consolazione: se l’impatto ai 60 all’ora fosse avvenuto con la spina dorsale o la testa, non potrei ora scriverne.

Una volta dimesso dovetti attendere settimane per potermi muovere e camminare, circa un anno per recuperare all’ottanta per cento l’uso del piede sinistro e la gamba destra rimase intra rotata. Questa condizione m’impedì di riprendere il karate ma potei ancora arrampicarmi sulle montagne per un paio di anni fin che i legamenti delle ginocchia e le cartilagini si logorarono per la mia postura insolita; dopo una fase lunga di apprendistato mi dedicai alla vela e per il resto della vita navigai come skipper. Ora l’età e i postumi dei 2 vecchi incidenti m’impongono lo stop. Non riesco più a saltare sulle barche. Sto a casa con mia moglie, il computer e un buon numero di libri.

Se un giorno lontano in Via 25 Aprile hai notato un quattordicenne in bicicletta gridare “ Checco” e un grosso Corvo volare dai tetti sulla sua spalla, vuol dire “che tè set dè Munticiar” e che ora hai almeno la mia avanzata età.L’amicizia e l’amore tra me e Checco nacque a Ossimo Superiore, nell’alta Val Camonica. E’ li che trascorrevo dai parenti le mie vacanze. E, oltre a lunghe camminate in montagna, i miei parenti notarono la mia curiosità rivolta ai Corvi e mi promisero che ne avrebbero preso per me uno dal nido. Quando tornai in Lambretta, il celebre motoscooter Innocenti, derivato da quelli dei Parà, vidi nel sottoscala, al buio, il grosso becco e i due occhi del corvo che mi fissarono: “Bruno, prendilo, devi essere tu che devi metterlo nello scatolone di cartone, con un buco perché possa respirare durante il viaggio di ritorno. A quel tempo la parola “Imprinting” era nota solo ai naturalisti, ma i montanari sapevano di questo comportamento di molti animali.

Sulla via del ritorno, con una media dei 35 Km/ora (tornanti vari) impiegai oltre 4 ore, mentre la testa del corvo spunta sempre dal buco del cartone legato sul portapacchi , vigile e interessato al percorso. Ogni ora mi fermavo e gli parlavo.

Nella tappa sul lago d’Iseo comprai due pesche, una per me e una rotta in tre pezzi che Checco – il diminutivo camuno di Francesco- ingollò felice. Da allora fummo amici: a casa lo lasciai libero in cortile, da dove ogni tanto decollava per i primo voli, poi iniziò le sue battaglie coi vicini di casa, volando nelle finestre , e quando lo trovavano in camera da letto, mentre trafugava monetine, anellini e tutto ciò che brilla erano guai. Sorpreso dai padroni di casa sul comò allargava le ali spalancando il becco emettendo un furioso Craa-craa ! Solo con la scopa tornava in cortile per infilare il maltolto nei buchi della vecchia muraglia. Dovevamo recuperare gli oggettini e le monete e scusarci ogni volta con i vicini. Durante un’influenza che mi tenne a letto per tre giorni Checco rimase appollaiato sul capezzale ininterrottamente ; mia madre ogni tanto doveva pulire i guano che cadeva a terra.Ogni mattina, saliva nella mia camera e mi svegliava beccando con delicatezza il lobo dell’orecchio e sentivo il suo fiato caldo sulla faccia. Insomma eravamo una coppia affiatata, anche nel senso letterale. Ubbidiva e si lasciava pendere solo da me. I guai aumentarono quando prese l’abitudine di divertirsi a fare cadere in terra i bicchieri lasciati vuoti dai clienti dell’osteria sul tavolo di cemento in cortile. Prendeva col becco il picchiere vuoto, zampettava sull’orlo e lo lasciava perché si frantumasse in terra: a quel rumore di vetri infranti allargava le ali e emetteva dei felici Craa –Craa, vere e proprie risate.

I miei genitori, stanchi dei lamenti dei vicini mi convinsero a prenderlo e io; come Giuda, lo chiamai dal tetto e lui si pose sulla mia spalla e lo consegnai a dei contadini che erano giunti per “portarlo in campagna”. Sapevo che non lo avrei perso per sempre. Seppi poi che fu ucciso a sassate dai ragazzi della cascina.

Ero un ragazzino che frequentava la scuola elementare e fui costretto a vivere e fare i compiti in un’osteria; riuscivo a viverci isolandomi da quegli scoppi di voci, risuonanti dal soffitto ad arco. Abitavo nell’odierna via 25 Aprile, facevo velocemente i compiti e leggevo libri, fumetti che scambiavo con altri amici, e un giornale quotidiano, generalmente il Corriere della Sera. La lettura rapiva completamente la mi attenzione ed era come se fossi messo in una campana di vetro. Nessun scoppio di voci o canti da osteria che i lavoratori dei campi, (Montichiari centro era molto piccolo nel 1937 e i clienti dell’osteria giungevano quasi tutti, specialmente al mercato del Venerdì in paese dalle varie frazioni, sempre tutti a piedi) Le biciclette erano care ed erano per molti un lusso da tenere in casa. Era inconcepibile lasciarla fuori non sorvegliata.

La mia salvezza fu che, a pochi metri da casa, vi era la Biblioteca Comunale, ricca di libri: era per me il più bel negozio di giocattoli. Sceglievo libri molto grossi, con molte pagine, perché più di un volume la bibliotecaria non mi permetteva di portarlo a casa.

Avvenne che lessi tutte le novelle di Guy de Maupassant, poi tutti i libri di Emilio Salgari, e parecchi volumi zeppi di storie romantiche di altri autori dell’ottocento.

Dal 1940 eravamo in guerra; tutti i paesi europei imposero sanzioni economiche all’Italia e alla Germania le famose Sanzioni: non si poteva esportare o importare niente, ne cibi ne materie prime e tanto meno stampa, libri, o fumetti. Vi era nelle edicole il Corriere dei Piccoli e giornalini di fumetti.

L’Italia era alleata con la Germania di Hitler ed era in guerra contro l’Inghilterra, la Francia e più tardi giunsero i bombardamenti dagli Stati Uniti d’America. Sulla stampa, ma soprattutto sui muri delle case in tutta Italia, (alcuni si vedono ancora sui muri di vecchie case di paesini di montagna) si leggevano gli slogan Mussoliniani:

Libro e Moschetto: Fascista perfetto.

Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi !

E’ l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende!

Avanti verso la vittoria: Vincere o Morire

E la realtà 5 anni dopo superò la retorica!

Durante i miei anni della scuola elementare c’era il Sabato Fascista: mia madre dovette ritagliare da un cappotto militare della guerra 1915-18 e tinse di nero una camicia chiara: era la divisa del Figlio della Lupa capitolina e in quinta fui un Balilla. Il copricapo si chiamava Fèz donato dal Partito: la divisa fu completa. Bisognava indossarla ogni sabato pomeriggio, dove si marciava, stava sull’attenti e poi, in posizione militare di riposo, si ascoltava il discorso del Podestà o del Commissario del Partito, ovviamente l’unico partito. Questo succedeva nelle piazze dei paesi e città d’Italia. Stavo ovviamente zitto, ma dopo decine di “Sabato Fascista” e le mille volte nei “Film Luce che proiettati ogni giorno al cinema, e vedere mille volte quelle mascelle protese, quelle mani sui fianchi sul balcone di piazza Venezia, detestai il fascismo. Seppi, dopo la fine della guerra, un fatto accaduto durante la dittatura: del fascismo: a Roma durante un grande raduno di giovani universitari, un gruppetto, capitanato dagli studenti Fruttero e Lucentini, aveva stampato con il “piccolo tipografo” un gioco per bambini aspiranti giornalisti- sulle fasce interne delle stelle filanti c’erano frasi contro il fascismo, Mussolini, l’Impero, Ciano, Starace e altri gerarchi del PNF. I congiurati si mescolarono cautamente nel grande gruppo di studenti, lasciando cadere dalle tasche della giacca le stelle filanti con le scritte sovversive. Gli studenti inebriati non lessero le frasi: raccolsero le stelle filanti e le gettarono festosamente in aria. Per mezz’ora il radioso cielo di Roma e il cortile dell’Università furono gremiti da quelle frasi, che deridevano il “genio della nostra Razza”. Solo Lucentini fu arrestato, deferito al Tribunale Speciale, e rinchiuso per sei mesi a Regina Coeli. Poi fu cacciato nell’esercito. Non era mai esistito un soldato così infimo. Marciava fuori tempo, non capiva i comandi, dimenticava lo zaino, allacciava male gli scarponi, non salutava col focoso battere dei tacchi, non si abbottonava bene la giubba: era l’infame del reggimento. Ma grazie al suo talento Lucentini si salvò. Come tutti i militari aveva appreso i tempi di smontaggio e montaggio del fucile dell’Esercito italiano. Cominciò a studiare: prese appunti, osservò i movimenti dei soldati col fucile, l’ordine seguito nel montare e rimontare, individuò i gesti superflui, i tempi vuoti. Dopo un mese di studi e di prove, Lucentini inventò un metodo di caricamento nuovo, che risparmiava un terzo del tempo di caricamento e scaricamento, fino allora necessario. Quando un ufficiale scoprì che il peggiore soldato dell’esercito aveva inventato un sistema rivoluzionario, che forse avrebbe permesso di vincere la guerra. Finì la guerra, per fortuna persa, altrimenti saremmo ora nipoti “ariani” di Hitler. Lucentini tornò a fare lo scrittore di romanzi con Fruttero: scrissero sempre romanzi a quattro mani. I loro libri erano firmati – Fruttero e Lucentini -ora sono scomparsi, ma i romanzi della coppia di amici sono ancora venduti o si trovano nelle biblioteche.

Pubblicato sul mensile di mare Bolina

Doveva essere grosso, anzi gigantesco, perché la notte sentivo i
suoi passi sul legno del pagliolato. Non è piacevole addormentarsi
pensando di posare nella notte inavvertitamente un piede sul
pavimento e sentire il morso di una pantegana. Perciò ho ceduto al
ricatto del marinaio dominicano: lui si fa prestare da un amico una
grossa trappola e io gli concedo due giorni di ferie.
Sacrifi col’ultimo pezzetto del formaggio di grana portatomi dall’Italia e
spero di catturare il clandestino, probabilmente salito a bordo
quando sono andato a fare acqua dolce nel porto de La Romana, circa
10 miglia dalla rada dove passo la notte nella barca di 14 metri
all’ancora. Ma il topo non abbocca. Pernotto nella rada da un mese,
in attesa del mattino, quando dal villaggio turistico mi portano una
dozzina di persone da imbarcare sul vecchio Ketch di 14 metri. Li
porto a visitare l’isola di Saona, disabitata e lussureggiante di
vegetazione tropicale. L’attrattiva maggiore non è la spiaggia
della Saona ma i due alberi di un ketch che spuntano dall’acqua:
una barca naufragata sul rif due anni prima. I due francesi che
sbarcarono sull’isoletta si attardarono troppo, cambiò il vento,
che girò verso terra, l’ancora arò e la barca fi nì sulla madrepora.

È bello con maschera e pinne visitare il relitto. Ma io sono sceso a terra,
lasciando la barca di cui ero responsabile all’ancora, solo una
volta, per fotografarla da terra. Mi sento un taxista, anzi un
tranviere, perché da un mese percorro sempre la stessa rotta
quotidiana: 16 miglia per 110 gradi, ancoraggio e sbarco dei
passeggeri da parte del marinaio che li porta a terra. Finita
la visita alla spiaggia dell’isola, spaghettata alla carbonara in
barca, preparata dal sottoscritto, poi ritorno per 290 gradi. Unico
divertimento: il vento, sempre sostenuto. C è quasi ogni giorno ed è
sempre al traverso, sia all’andata che al ritorno.
La notte la barca mette la prua al vento, che viene da terra, mentre l’onda
oceanica arriva al traverso, svegliandomi con rollate. L’armatore
non aveva dotato la barca di una seconda ancora, per fermare la barca
con la prua verso il largo, da dove arrivano le onde. Spesso sono
svegliato da uno dei soliti pescatori che mi chiedono un poco di
miscela dal serbatoio del tender. Ormai la barca che gestisco è
diventata una specie di self-service notturno per i pescatori della
zona. Chiedo lumi a loro, la notte seguente: cosa devo usare per atti
rare un topo in trappola ? “Senor, i topi di Santo Domingo non sono
abituati al formaggio: necessità una banana!” Pongo una banana
nella trappola e la notte stessa vengo svegliato da uno scatto
metallico seguito da un acuto, potente squittio disperato, tipo il
grido del maiale quando viene portato al macello: finalmente l’ho
beccato.

Capitani coraggiosi?

Il comandante del TITANIC Edward J. Smith

Il comandante del CONCORDIA Francesco Schettino

Il Titanic aveva a bordo un equipaggio composto da maggiordomi, camerieri e cuochi, era una residenza galleggiante di 45.000 tonnellate, considerata indistruttibile dagli armatori, e il capitano aveva un ruolo di gestore di uno stabilimento balneare. Le scialuppe di salvataggio non erano sufficienti per tutti i passeggeri della nave. Nulla di eroico, il capitano, nonostante i suoi 34 anni di esperienza, si comportò quella notte dell’aprile del 1912 più come un albergatore che come marinaio: aspettò 25 minuti prima

di lanciare il primo SOS inoltre, per non allarmare i passeggeri, ritardò l’ordine di abbandonare la nave e quando ciò avvenne molti passeggeri si diressero verso le scialuppe di salvataggio, ma altri dormivano o passeggiavano in coperta. Molti vollero stare sulla nave perché pensavano ancora di essere più al sicuro.

Joseph Conrad, che era stato marinaio per molti anni prima di lasciare il comando di una nave per dedicarsi alla scrittura, pubblicò riflessioni in merito: si chiedeva amaramente come si possa

costruire una nave con sottili lastre di acciaio arredata con uno stile faraonico per lanciarla a 21 nodi sapendo di essere in zona iceberg.

Le riflessioni di Conrad potrebbero essere attuali dopo un secolo, solo che Smith affondò con la sua nave. La descrizione dell’abbondanza di camerieri e cuochi e la scarsità di marinai come Il comandante del CONCORDIA Francesco Schettino, come il Titanic aveva a bordo un equipaggio composto da maggiordomi, camerieri e cuochi, era una residenza galleggiante di 45.000 tonnellate, considerata indistruttibile dagli armatori, e il capitano aveva un ruolo di gestore di uno stabilimento balneare. Le scialuppe di salvataggio non erano sufficienti per tutti i passeggeri della nave. Nulla di eroico, il capitano, nonostante i suoi 34 anni di esperienza, si comportò quella notte dell’aprile del 1912 più come un albergatore che come marinaio: aspettò 25 minuti prima di lanciare il primo SOS inoltre, per non allarmare i passeggeri, ritardò l’ordine di abbandonare la nave e quando ciò avvenne molti passeggeri si diressero verso le scialuppe di salvataggio, ma altri dormivano o passeggiavano in coperta. Molti vollero stare sulla nave perché pensavano ancora di essere più al sicuro.

Joseph Conrad, che era stato marinaio per molti anni prima di lasciare il comando di una nave per dedicarsi alla scrittura, pubblicò riflessioni in merito: si chiedeva amaramente come si possa costruire una nave con sottili lastre di acciaio arredata con uno stile faraonico per lanciarla a 21 nodi sapendo di essere in zona iceberg.

Le riflessioni di Conrad potrebbero essere attuali dopo un secolo, solo che Smith affondò con la sua nave. La descrizione dell’abbondanza di camerieri e cuochi e la scarsità di marinai fu simile. Ma la vigliaccheria di Francesco Schettino è immensa e storicamente unica. Fu il primo ad abbandonare la nave, visto che era praticamente appoggiata a terra. Famosa la conversazione via radio di Schettino con il comandante della Capitaneria di Livorno: “Le ordino di risalire sulla nave, ma Schettino si lamentò che cera buio e non poteva risalire: “ E’ un ordine : risalga sulla nave cazzo !”