La REPUBBLICA DI PANAMA

Andai a Panama con una barca a vela nel 1996, e ci rimasi pochi giorni: era una tappa del Rally intorno al mondo organizzato dalla RAF (Royal Air Force) Ebbi poi occasione di consegnare una barca nel porto di Panama e mi fermai sulla barca in attesa dell’armatore romano che venne dopo due settimane. Conobbi un pensionato americano, Robert, che era mio coetaneo, viveva a Panama da 4 anni sempre sul suo bel veliero d’epoca, in legno pregiato. Aveva a bordo anche uno spazio notevole per un ufficio con TV, computer, stampane, e ovviamente collegato a terra con corrente elettrica. In tutto quel tempo Lui abitava da 4 anni in quel porto, e spesso si faceva portare in barca un pranzo completo caldo da un ristorante di classe: Robert era un pensionato di lusso. Per tenersi la mente attiva scendeva a terra e fece molte amicizie. Descrisse a fondo il modo di vita dei panamensi. Tra velisti è facile stringere amicizia e seppi da Robert, che parla anche in spagnolo e sapeva tutto sul popolo della piccola Repubblica di Panama. Nel mio libro “Racconti di Mare e di terre lontane” descrissi Panama dal punto di vista dello skipper, difficoltà varie per l’ormeggio di notte all’ancora. Da lui ho saputo tutto sull’attuale popolazione, ben più precisa e approfondita della mia di molti anni prima. Mi dettò tutto ciò che aveva scritto e io lo digitai sul suo computer. Poi passai il contenuto nella chiavetta USB.

Panama è Paese “bendito por Dios” -Benedetto da Dio- la sua posizione geografica, ad ansa, lo protegge da uragani, cicloni e altre calamitá naturali, che affliggono ciclicamente il centro-America. Mi spiega che anche per questa ragione il famoso Canale è stato costruito proprio qui !

E i panameñi, tutti, vanno giustamente orgogliosi di questa immane ‘via di transito interoceanica’. E l’orgoglio patriottico è diffuso. “Orgullosamente hecho (nato) en Panama”. “Un Canal, un solo nombre: Panamá”. Questi alcuni degli slogan che campeggiano nei titoli dei giornali, che risuonano dai canali tv pubblici e che si vedono un po’ ovunque: sulle facciate degli edifici e sulle bandiere che i panameñi fanno sventolare dalle loro case.

Ad un europeo o un americano del nord come Robert, queste espressioni cosi nazionaliste paiono strane, come pare strano l’inno nazionale cantato il lunedì nelle scuole, e i molti ‘desfiles’ che in varie occasioni (Día de la Patria, Día de la Liberación) si organizzano un po’ in tutto il Paese. Parate della gioventú panameña, agghindata in uniformi lucidate e armeggiante bandiere, gagliardetti, stendardi di tutti i tipi mentre un rollio di tamburi accompagna il tutto. Nelle scuole, cartelloni e inni alla Patria, benedizioni divine e altre invocazioni-preghiere e ringraziamenti che le varie classi preparano sotto la guida, attenta, degli insegnanti.

Il Paese è considerato sacro e intangibile e ogni osservazione o critica è considerata offesa ‘personale’. Parlando con la gente si nota una forte e diffusa avversione per tutto ciò che è ‘gringo’ (americano del nord) e una rabbia, ancora aperta e bruciante, per l’invasione statunitense..

Venire a invadere un Paese di tre milioni di abitanti, ad ammazzare gente innocente per prendere un narcotrafficante che loro stessi – George H.W. Bush- avevano messo Noriega. Robert mi disse che un panamense gli raccontava:

– Ricordo le bombe, ricordo i saccheggi dei magazzini, dei negozi. Il Paese era senza controllo.

– Ricordo che mi hanno portato in prigione e mi hanno dato un sacco di botte. Qualcuno non è più tornato a casa

– Noriega? Adesso se la passa bene, dicono che sia in una villa super-confortevole e protetta negli Stati Uniti.

Come giustificare però che la forza di Panama sta proprio – volenti o nolenti – nella forte influenza statunitense? A malincuore, qualcuno ammette che il ritorno del Canale a Panamá (31 dicembre 99) non ha rappresentato una vittoria e che forse sarebbe stato meglio fare la fine di Puerto Rico, ‘colonia’ americana nel Caribe.

L’impressione che se ne ricava è che questo popolo-bambino sia facilmente plagiabile e che la demagogia, qui più che altrove, sia un facile terreno. Qualcuno dice, ridendo, che durante l’invasione gli unici negozi non saccheggiati sono stati le librerie. Non si fatica a crederlo. Pochi leggono o viaggiano, ma quelli che possono mandano i figli a studiare in elitari colleges europei o statunitensi.

I ragazzi sotto i sedici anni non possono uscire alla sera dopo le otto ‘se non accompagnati da un adulto’: mi chiedo chi farà rispettare questo ‘coprifuoco minorile’. In un Paese che sembra autoritario, nessuno esercita realmente alcuna autorità. I giovani sembrano abbastanza rispettosi di regole, norme, ruoli e trascorrono il tempo in inviti reciproci per “la festa dei 15 anni’, in bigliettini di invito, nella scelta del vestito per la del diploma.  

É un Paese che adora le formalità, i certificati, i pezzi di carta, le dichiarazioni. Ma lo sfoggio è, come tutto, più apparente che sostanziale. Non fosse un popolo profondamente pacifico, la combinazione ignoranza-violenza sarebbe davvero esplosiva.

In occasione delle festività religiose è vietata la vendita di alcool e derivati. E tutti o quasi vanno alla Santa Messa e si dichiarano fedeli alla Chiesa cattolica romana. Anche la religione, come tutto il resto, è formale e si benedice tutto con la stessa compunta serietà: la pizzeria, il bambino, la banca. La famiglia è un valore in sé, ma molti hanno figli diversi da donne diverse. Che li mettono al mondo. “cuando Dios quiera“, (quando Dio Vuole). E tanti non vedranno mai una scuola!

L’unico vero interesse sembra essere il Sesso (con la S maiuscola). Tutti ci pensano e lo praticano con grande disinvoltura, ma tutto ciò che riguarda la sessualitá è censurato, proibito, nascosto. In molti luoghi di lavoro si vietano alle donne i pantaloni perché potrebbero suscitare… desideri morbosi. Molte sostengono che il “machismo’ è dilagante, però poi ammiccano con gesti e provocazioni sessuali in una perfetta complementarietà.

La vendita, emblema e simbolo del capitalismo, è quasi sempre gestita in modo casuale. Casuali gli ammassi di mercanzia nei negozi dove si vendono chitarre con lenzuola, quadri con biciclette, e dove non capisci mai il dove e il come. Se entri nessuno ti bada. Chi mangia, chi beve, chi si fa le unghie. Tutti pagano tutto a rate e tutti scrivono assegni. Quasi nessuno usa i contanti e tutti hanno paura dei ladri e delle rapine. E’ vero. Ho visto io personalmente un barista del bar nel porto rientrare al mattino sanguinante per una ferita al gluteo: non avendo trovato nulla nelle sue tasche dopo averlo spogliato, con lo stesso coltello gli tolsero la copertura d’oro di un dente. A me questo Paese appare più incasinato che violento.

L’esercito regolare è stato sciolto dopo i “fatti di Noriega” ma ovunque ci sono guardie private. La droga esiste, ma non è una ‘piaga sociale’ e non causa violenze quotidiane come in Europa. In fatti la percentuale dei ‘consumatori’ é bassa e non esiste l’eroina. Qualcuno mi spiega che è una scelta ‘di mercato’: i narcos preferiscono tenere tranquillo questo Paese dove possono “lavare” denaro in quantitá. E Panama é sicuramente un luogo dove si ‘blanquea dinero’ (pulisce denaro). E tanto. Lo vedi dalle molte società di prestiti (a tassi irrisori), alla potenza e al numero incredibile di banche, ai molti lussuosissimi hotel e ai grattacieli che nascono come funghi. I conti bancari sono intestati a società anonime ed è successo che su un conto sia transitato, per errore, un milione di dollari proveniente da chissà dove e diretto chissà dove. Con centomila dollari si ottiene la residenza senza bisogno di tanti papiri. E’ facile comprendere come qui, più che altrove, ci siano signori rispettabilissimi e sorridenti con condanne pendenti per omicidio, rapine, sequestri… Mi spiegano che se ‘stanno tranquilli’ nessuno li tocca e che l’ordine di espulsione viene dato solo se il governo d’origine fa forti pressioni, oppure se la DEA è sulle loro tracce.

Tutto si compra. La corruzione è capillare, diffusa, ma… allegra! “Tranquilo”, “Mañana”, “No se preocupe” sono le ‘frasi tipiche’. Capisco come la corruzione abbia una sua forte ragione logica: gli stipendi sono bassissimi e il costo della vita (e l’offerta di prodotti) è in proporzione decisamente alto. La gente in genere non ha grandi aspirazioni e lo scopo non è guadagnare, ma disfrutar, cioè godersela. Ho sentito di gente che, appena ritirata la quinzena (quindicina), non ritorna a lavorare. E quando finiscono i soldi, tornano, come se niente fosse, dal datore di lavoro. Mi chiedo, in un sussulto sindacalista, da dove comincerebbe Cofferati e successori…

Quantità enormi di birra circolano alla vigilia delle festività, che qui sono proprio tante. La città, come per incanto, si svuota. Vanno all’Interior, cioè nei territori interni di Panama (Las Tablas, Chiriquí) a trovare amici, parenti, in un’ubriacatura collettiva di birra, balli tipici e sesso a go-go. Panem et circenses: gli antichi Romani hanno fatto scuola nel mondo. Quando si riprende, la locura di sempre: code infinite, tranques (ingorghi) nelle poche strade cittadine e confusione ovunque. Se hai un appuntamento, un impegno, un orario da rispettare, devi pensarci per tempo. E se hai fretta… te la fai passare.

In un Paese che ha la stagione delle piogge, nessuno sembra attrezzato né abituato alla pioggia: l’escursione termica (giorno-notte ed estate-inverno) sarà di cinque gradi. Cioè tra i 25 e i 30 gradi tutto l’anno. Il calore non raggiunge mai i picchi delle estati europee, o nord-americane. Ma qui nessuno pare sopportarlo, anzi lo combatte con una feroce aria condizionata. Urlano e gridano con orrore infantile se vedono un ragno, uno scarafaggio. Neanche vivessero in Svizzera, inoltre il fatto di tornare al lavoro, dopo aver finito il denaro della paga, è una realtà vigente negli altri paesi sudamericani.

Raccontai a Robert che ebbi l’occasione di andare per il mio lavoro di skipper: in vari l Venezuela, Santo Domingo, Equador e in molte isole dei Caraibi. Tornando dalle Galapagos, isole che appartengono alla Columbia, in attesa di un volo per l’Europa rimasi per due giorni a Quito e ebbi il tempo vedere nelle vicinanze di Quito, capitale dell’Equador c’è una curiosità turistica: una rotaia di marmo posta sulla linea dell’Equatore, si chiama “la mitad del mundo “ e la gente ci va per farsi fotografare con un piede nell’emisfero boreale e l’altro in quello australe. E’ la linea di latitudine zero. Ora facile fotografare con lo Smartphone.

In tutt’altro contesto, nei pressi di Londra, a Greenwich, vi è una barra di ottone posta sulla linea del meridiano di Greenwich dove è possibile farsi fotografare con un piede nell’emisfero Est e l’altro piede nell’emisfero Ovest. Questa è la linea longitudine zero, che parte dal polo nord, attraversa l’equatore e tocca il polo sud.

Sono passati molti anni dal mio incontro con Robert, avevamo scambiato il numero di telefono, ma in quegli anni i cellulari non erano collegati con satelliti e non seppi come contattarlo e non so nulla del mio coetaneo.

Viaggio a Caracas, Venezuela, anno 1998

Devo raggiungere in aereo Puerto Santa Cruz, dove una barca a vela e il suo proprietario mi attendono. Parto da Milano per Caracas, la capitale del Venezuela, via Parigi, poi un volo interno mi porterà all’aeroporto vicino a Puerto Santa Cruz. Per motivi al momento inspiegabili l’aereo non attera a Caracas ma prosegue il volo a ovest di 500 Km. e atterra a Maracaibo. La hostess mi spiega che vi erano persone importanti che dovevano rientrare nella capitale dal fine settimana (pensai che la corruzione e la prepotenza dei politici qui è peggio che in Italia ) e mi preoccupai per la perdita del volo interno. A Caracas dovetti correre con lo zaino verso i voli interni ma per un minuto persi l’aereo. I cellulari erano agli inizi e il mio era inutilizzabile in sud America.

Cercare un telefono e le monete locali per usarlo persi mezz’ora ed era notte. Dovevo avvertire il cliente che sarei arrivato col primo volo del mattino. Presi un taxi e dovetti fidarmi del taxista per portarmi in un albergo vicino all’aeroporto. Mi andò bene e dopo 20 minuti approdai nella hall poco illuminata di uno stanzone più simile ad una taverna popolare che ad un hotel da una stella. Un tizio con i gomiti appoggiati sul bancone beve birra con altri tre persone con facce non molto raccomandabili. Mi accettò dopo il pagamento di una notte e mi assicurò la sveglia per il mattino alle 04 perché il volo interno per Puerto La Cruz di domattina parte alle 06.

Carico in spalla il mio pesante zaino e salgo nella stanza, dove un rombo intenso mi stordisce: apro la finestra e vedo fissato all’esterno, vicinissimo, l’enorme condizionatore il cui rumore assordante mi terrà sveglio tutta la notte. Scendo nello stanzone a piano terra prima di sentire la chiamata dell’albergatore. E’ il primo contatto con il caldo afoso del clima venezuelano. Poi il primo impatto nella villetta del cliente di origine italiana: un giardinetto con piccola piscina e un grosso SUV mi accolgono nella facciata. Dietro la casa un lungo balcone al quale è ormeggiata una magnifica barca a vela di 14 metri con bandiera austriaca.

Puerto la Cruz e una cittadina alla quale è annesso un villaggio comunicante col mare tramite una serie di canali navigabili. Il villaggio è recintato e due guardie armate sorvegliano l’entrata. La messa a punto della barca m’impegna per una settimana e cominciamo poi a stivare cibi e bevande.

Nel supermercato di Puerto la Cruz noto che gli scaffali sono pieni di articoli per bellezza, creme, dentifrici, ecc., pochi tipi di surgelati e alimenti vari, grande quantità di patatine fritte. Ho saputo dal mio cliente che il Venezuela è al primo posto al mondo per consumo di prodotti di bellezza; mi spiega la corruzione di ogni ufficio burocratico che funziona solo con regali e mance. Lui ha il conto corrente in dollari a Miami, la città americana più vicina al Venezuela e la corrispondenza con la sua banca era solo tramite corriere; la ragione? I postini rubano i francobolli !

Una settimana per mettere a punto la barca e poi partiamo verso le isole dei Caraibi. Non è la prima volta che porto barche ai Caraibi, ma partendo dal continente Sudamericano si hanno i famosi venti Alisei contrari alla nostra rotta. Molto più faticoso per una barca a vela e spesso bisogna usare il motore- Dopo una sosta di una settimana arranchiamo a motore, sempre con vento e onda contro verso le altre Grenadine. Lunga tappa a Bequia, poi San. Vincent, S. Lucia, indi Martinica. Certo, durante le lunghe soste nelle isole, anche se il caldo è eccessivo, vale la pena riposarsi in certe baie che sono di una bellezza mozzafiato. L’armatore, stanco di vento contro, decide di interrompere il programma e tornare in Venezuela, sognando di avere finalmente onda e vento al lasco al ritorno –

E allora l’Aliseo, maledetto, smette di soffiare, va in bonaccia. Soffia a solo 5 – 6 nodi. Pochi quando arrivano da poppa o dal lasco.

Procediamo a motore, perché l’armatore, velista principiante, non vuol saperne dello spinnaker, teme la grande vela colorata che fa camminare la barca anche con poco vento in poppa. Così proseguiamo a motore fino a Grenada. Altra lunga tappa di una settimana in attesa dell’Aliseo, che alla fine sembra riprendere fiato: salpiamo e finalmente il motore riposa assieme ai nostri timpani. La rotta per il Venezuela passa nei pressi di un gruppo di isolette : Islas Los Testigos (i Testimoni), abitate solo da pescatori. E’ notte e secondo il portolano il faro non è sempre funzionante.

Traccio la rotta passante a 5 miglia a est del piccolo arcipelago. Scorgiamo il faro circa 10 miglia avanti, un po’ alla mia destra . Bene, il faro funziona e ci indica che passiamo ad est delle isole, come da rotta iniziale; esiste nella zona delle Testigos una corrente molto forte e corre verso ovest e tenta di portarci contro le isolette. Orzo di altri 25° verso est dal gran lasco passiamo ad un’andatura di bolina larga-traverso. La barca acquista velocità e ci allontana da quel pericolo .

Finalmente mi sento sicuro perché il faro è sorpassato. Correggo sulla carta la rotta e procediamo verso Trinidad, uno Stato Caraibico, un’isola di un milione e mezzo di abitanti, un poco fuori rotta ma che vale la pena di visitare. Dopo una mezz’ora vedo a prua, a poche miglia, un fila di piccole luci lampeggianti sicuramente una rete pesca lunga almeno 5 miglia, che attraversa la nostra rotta.

Qualche imprecazione mi scappa, ma d’altronde i pescatori lavorano con le reti; e meno male che le segnalano con le luci ! Nuovo cambio di rotta per aggirare la lunga linea di luci che sembrano non finire mai. Navighiamo a vela un’altra oretta fuori rotta e finalmente sorpassiamo la catena di lucine stroboscopiche. Riprendo di nuovo la rotta, corretta naturalmente dopo aver avuto dal GPS il nuovo punto nave.

Ma le sorprese non sono ancora finite e nel buio la barca, con le vele gonfie rallenta di colpo: come se una mano del dio Nettuno spingesse delicatamente la prua indietro fino a che la barca si blocca, mentre le vele continuano a spingere nel silenzio che ora diventa inquietante. Per un secondo penso ai mostri marini, come i navigatori dei secoli scorsi pieni di paure per leggende tramandate da membri di equipaggi superstiziosi; forse la stanchezza si fa sentire, ma poi la mente mi dice che siamo incappati in un’altra rete, questa volta non segnalata. Impreco contro i pescatori.

E’ buio pesto: come uscire dalla rete ? Accendere il motore e forzare significa avere la rete attorno all’elica e di conseguenza bloccare il motore. Scendere sott’acqua al buio armato di coltello per liberare l’elica quando servirà il motore non è un’idea entusiasmante. Per un attimo mi sento un tonno preso in rete, ma mi ricordo che quella barca ha la deriva mobile e si può alzare anche la pala del timone.

Agire sui comandi idraulici è questione di 3 minuti: la barca spinta dalle vele lentamente comincia a muoversi, poi sembra addirittura che faccia un piccolo balzo, uno strappo e subito riprende la sua corsa veloce verso Trinidad. Sono felice, anche se sento dalla radio, il VHF di bordo, urlare parolacce in spagnolo: è il pescatore che probabilmente è a poche miglia presso il capo della lunghissima rete e sicuramente non aveva luci nemmeno sulla sua barchetta. Si è accorto che la rete è stata danneggiata. Una fermata a Trinidad di due giorni. Fine della dura crociera.

Partiamo da Las Palmas in tre persone e dopo 21 giorni di navigazione atlantica prendiamo terra in quattro . Sembra inverosimile? E’ accaduto.

Una telefonata il giorno 6 Dicembre 2006 : “Ho visto per caso il tuo sito internet: potresti entro due o tre giorni partire dalle Canarie per dare una mano a trasferire un catamarano ai Caraibi?” Decido di cogliere al volo questa opportunità ; chiuderò la mia carriera di lunghe navigazioni con una barca per me nuova : un catamarano da crociera. Chiamo Marco, armatore e skipper confermando la mia adesione.

Arrivo a Las Palmas, Gran Canaria, il giorno 9 Dicembre con un volo “last minute”.

In taxi al puerto deportivo: E’ buio e fatico a cercare e localizzare un catamarano di nome “Azul”,che è chiuso e a luci spente.

Affiancato c’è un catamarano gemello ” Cochis”, illuminato. Col cellulare chiamo il numero dello skipper di “Azul”, di cui conosco solo il nome, Marco. Ed è Marco che si affaccia in pozzetto col suo faccione allegro e la voce cordiale, un po’ roca dalle sigarette e l’accento milanese: “Sali Bruno, ti aiuto a portare il saccone a bordo, dopo cena ci spostiamo sul mio catamarano”. Conosco anche lo skipper del Cochis e il marinaio, un simpatico sardo, si chiama Emiliano e parla in romanesco: una miniera di battute divertenti.

Mi informano che i due catamarani viaggeranno in coppia per la traversata ai Caraibi. Mi sorprende il fatto che siamo in quattro con due imbarcazioni ma Marco mi assicura che sta aspettando due ragazzi da Viterbo, due giovani fratelli : saremo in tre per imbarcazione. La cabina che Marco mi assegna è quanto di più lussuoso io abbia trovato su una imbarcazione a vela. Come tutti i catamarani da crociera vi sono: quattro cabine doppie, ciascuna con bagno privato, doccia con acqua calda a volontà, (vi è un generatore diesel di corrente che fa funzionare il dissalatore). C’è anche un telefono satellitare. Ma veniamo al fatto. Arrivano il giorno dopo i due ragazzi di Viterbo: sono fratelli ( 34 e 35 anni)

Il mare è brutto, vi sono 35 nodi e onde notevoli : abbiamo tutto il tempo per fare cambusa e il mare ci permette di partire il 12 Dicembre. Massimiliano sarà a bordo di Azul, suo fratello Lamberto si imbarcherà su Cochis.

Dopo circa una settimana di navigazione in tandem, distanziati più o meno di tre miglia, lo skipper di Cochis cambia idea, non vuole più arrivare alle Antille, decide di fare rotta sulle isole di Capoverde, pensando di trovare maggiori probabilità di lavoro . Lamberto, non è d’accordo e vuole arrivare ai Caraibi col fratello e chiede a Marco di prenderlo a bordo. Non avevo mai visto un trasbordo di persona da una barca ad un’altra in pieno oceano: i due catamarani, in un giorno di calma di vento, ( l’onda lunga però fa ballare ancora ) si fermano ad una distanza di un centinaio di metri . Un gommoncino, senza motore, legato con una cima viene calato in mare: a bordo Emiliano che aiuterà Lamberto nel trasbordo assieme a bagagli e cambusa ( nella fattispecie un sacco di dieci Kg. di patate, una reticella di limoni e molto altro). Il moto ondoso oceanico rende vivace e impegnativo il trasbordo di Lamberto e merci varie. Altra lunga cima gettata da noi che Emiliano tiene mentre viene tirato verso Cochis dallo skipper mentre noi filiamo la nostra : arrivato ad un certo punto Emiliano è costretto a mollare la ns. cima e lui si atteggia a naufrago solo nel mare. Cominciamo a sfotterlo:” immigrato clandestino, se ti becca la guardia costiera di subito: “io no documenti “. Lui saluta con gesti ieratici mentre si ala sulla cima che lo lega alla barca su cui andrà a Capoverde, circa 160 miglia dal punto in cui siamo.

Ora siamo in quattro : il passatempo migliore, oltre ai turni di guardia, finchè il timone automatico funziona, è la pesca al traino; due canne da pesca poste alla distanza di circa sette metri, cioè la larghezza del catamarano, ci fanno pescare una media di 2 tonnetti o dorado al giorno, sempre alla velocità di sette od otto nodi; i primi giorni mangiavamo pesce cucinato in molti modi, ma poi, mangiare pesce ogni giorno stanca, si pesca per diletto e si ributta in mare la preda che continuerà a vivere.

Grande l’emozione nel tirare a bordo due Marlin, uno lungo due metri ( dalla punta della spada alle pinne di coda ). In questa occasione feci scoprire come uccidere il pesce issato a bordo senza farlo soffrire troppo ed evitare spruzzi di sangue : un goccio di rum o altro alcolico buttato nelle branchie o in bocca e il pesce muore all’istante.

Si guasta il pilota automatico cinque giorni prima dell’arrivo, ed i turni notturni al timone ora sono ben più impegnativi. Si guasta anche il generatore di corrente: si economizza l’acqua come sulle normali barche. Marco pensa che metterà un pompa a pedale per lavare i piatti con l’acqua di mare: per ora laviamo piatti e pentole a turno seduti sui gradini di poppa coi piedi in mare, sempre alla velocità media di 7 nodi. La voglia di un bagno di mare coglie tutti : buttiamo un cima in acqua con un paio di gasse e ci caliamo in mare a turno: un idromassaggio a sette nodi è così piacevole che non vogliamo pensare che potremmo essere noi l’esca per un predatore: lo squalo.

La meta è Tobago Cais, sicuramente il più bell’ancoraggio dei Carabi, dove buttiamo l’ancora il 2 Gennaio 2007 : file di catamarani sono ancorati fra questi isolotti di sabbia bianchissima ed i colori del mare attraggono irresistibilmente. L’ultima volta che gettai l’ancora a Tobago Cais c’erano solo poche barche tradizionali. Ora sono a dozzine. Quasi tutte stazionano per tutto l’anno alla Martinica e sono di proprietà di compagnie che noleggiano a gruppi di persone da skipper volontari arrivano alla Martinica in aereo, passano qualche settimana fra le isole e poi rincasano in aereo. Vedi foto varie sul mio sito. Noi, dopo la traversata facciamo due settimane di navigazione con soste lunghe risalendo controvento da Union alla Martinica.

Prima di partire una cena di addio con l’equipaggio: sarà per me un lieto e ottimo ricordo l’allegria di Marco, la prorompente vitalità di Massimiliano, la saggezza, la generosità e le capacità veliche di Lamberto. Durante la navigazione, oltre a festeggiare il Natale con panettone, abbiamo festeggiato il mio 75° compleanno con spumante e il capodanno 2007 con polenta (precotta ovviamente) e cotechino, come da vecchia tradizione lombarda.

Bruno Roversi

Lo skipper che scalò il Kilimangiaro» Questo il titolo della nuova fatica letteraria di Bruno Roversi. Una vita intensa quella dell’Ottantasettene che da trent’anni gira il mondo a caccia di avventura. Nato a Brescia, ma da 12 anni vive nella città di Montichiari insieme con la moglie Nadia. Dopo aver lavorato in banca per circa un anno, apre a Brescia un negozio di elettrodomestici e quando Bruno aveva circa 50 anni, ha dato sfogo alla sua più grande passione, ovvero girare il mondo. «Ho iniziato nella maniera più immediata – ha raccontato Bruno – Facendo l’accompagnatore turistico. Il primo viaggio decisi volli farlo da solo, ma con un’ottima guida tascabile e conobbi lo stato di Israele. Non fu un viaggio convenzionale, nel senso che non andai solo a visitare le mete tradizionali. Visitai con piccoli gruppi: la Cina di 35 anni fa, dove tutti andavano in bicicletta e l’aria era pulita, ma i treni funzionava E da quel momento ho continuato ad accompagnare persone in giro per il mondo».

Però la voglia di scoprire di Bruno non riusciva ad essere soddisfatta «Volevo girare, conoscere scoprire – ha continuato – Ho deciso di comprare un camper prima e poi all’inizio degli anni 80 è arrivata la passione per la nautica. Decisi di vendere il camper per comprare compre una piccola barca a vela e per due anni ha imparato ad usare facendo tanta esperienza sul lago di Garda e poi è arrivato il mare». Ed è arrivata la prima traversata atlantica, poi iniziai a fare lo Skipper per lavoro all’inizio solo in Mediterraneo, Grecia, Croazia, Francia, Spagna poi le traversate oceaniche, dall’Italia fino alle Isole della Polinesia. Bruno aveva 75 anni. Traversate atlantiche in barca a vela, spedizioni sul Kilimangiaro, una spedizione in Cina più di 30 anni fa, insomma il mondo Bruno lo ha visitato davvero. Ora Bruno ha 87 anni e in barca non ci può più andare. «Ho difficoltà a salire e scendere dalla barca – ha raccontato – Le gambe non mi reggono più. Il mare mi manca questo è sicuro». Ma di questa vita all’insegna dei viaggi e dell’avventura cosa ne pensa la famiglia di Bruno. «Mia moglie e i miei figli non mi hanno mai ostacolato – ha raccontato – Hanno colto il mio grande desiderio di libertà, e per questa intendo la libertà di girare, scoprire e conoscere».

In virtù di questa incredibile riconoscenza che Bruno nutre nei confronti della moglie il secondo manoscritto lo ha dedicato proprio a lei «A mia moglie, che sempre mi ha incoraggiato a realizzare i miei sogni». Il libro di Bruno Roversi è stato presentato ai monteclarensi da molti anni e si trova in vendita nelle edicole oppure on line. Ora Bruno racconterà qualcuno dei numerosi aneddoti che ha riportato all’interno del libro e spiega a chi è interessato, un’enorme carta, incollata su una parete dello studio, dalla base al soffitto, che trovò negli States, “Stati Uniti d’America” e sulla parete opposta un insieme di fotografie dei suoi viaggi. È felice di accogliere a casa sua chi è interessato…via G.Falcone 205 Montichiari.

INLINE RELATED POSTS 1/1 //

Marzia Borzi