I miei genitori gestivano un’osteria, dove vissi l’infanzia e la prima giovinezza. All’inizio della guerra – 1940 – conobbi molti clienti, militari dell’Esercito, poveri fanti del sud, che venivano a scolarsi un bicchiere di vino e sfamarsi con manciate di ceci cotti al forno, inviati in pacchi via posta dalle loro famiglie. Poi vennero i giorni dei Militi fascisti, sottufficiali alloggiati nella casa del Fascio. Arrivarono anche, prima della fine della guerra, i Tedeschi, soprattutto alcuni piloti dal campo d’aviazione di Ghedi, che entravano nell’osteria la sera. Uno di essi mi prendeva sulle ginocchia, mi pettinava dicendomi che aveva in Germania un bambino della mia età. In quel tempo l’atmosfera non inquinata era tersa e la visibilità perfetta. L’inquinamento luminoso non esisteva, perché l’illuminazione pubblica era spenta. Inoltre la notte c’era “Pippo”, piccolo aereo notturno che buttava bombette sopra il tetto e al massimo rompeva qualche tegola o vetro, quando vi era una finestra non perfettamente “oscurata”. Una luce accesa poteva essere la segnalazione per aerei nemici. Per un anno circa il motore di quell’aereo notturno, impaurendomi, impediva il mio sonno. Verso la fine della guerra passavano su Montichiari i bombardieri anglo-americani per bombardare Brescia, città industriale, dove si costruivano armi e camion per l’esercito. Lo stormo di quei grossi aerei, forse una decina, volava alto e compatto e si allargava quando era su Brescia; si vedevano chiaramente le bombe scendere e si sentiva il boato a distanza, meno di 20 Km.

Era una sofferenza, mitigata solo dalla certezza che, in quel momento, noi eravamo in salvo. Cominciava così l’epoca delle incursioni aeree e l’urlo della sirena appianava di colpo le differenze sociali: tutti gli abitanti della contrada correvano nel rifugio scavato nei fianchi della collina, un rifugio privato messo a disposizione da un generoso “siòr”. Fu un’avventura vedere al buio della sera, dal colle San Pancrazio, assieme al mio amico Beppe, le luci degli aerei tedeschi, sempre una decina, decollare dal campo d’aviazione militare di Ghedi e ricontarli al ritorno: ogni sera ne mancavano due o tre. Una sera il pilota tedesco mi pettinò piangendo: disse che toccava a lui, la notte stessa, partire in missione. Non lo vidi più. Le guerre sono sempre state la rovina di milioni di persone per la volontà di potere di poche persone.

Mi fu risparmiata, fra le esperienze di guerra, una delle più spiacevoli: la fame. Vivevo in un paese agricolo della pianura padana e mio padre, come molti, la sera col buio andava in bicicletta per cascine, in cerca di farina, patate, salame, tutto ciò che fosse commestibile, pagato a caro prezzo e con un certo rischio: nacque così la borsa nera, considerata un crimine. La fame incombeva sui valligiani, dove non c’era agricoltura: si spostavano dalle valli, giungevano in bicicletta donne con enormi borse cariche di prodotti delle loro officine: posate, utensili vari e ripartivano cariche di farina e generi alimentari. Talvolta però la Squadra Annonaria, una specie di polizia politica, attiva nelle province di Mantova e Cremona, fermava i valligiani sulla strada del ritorno e sequestrava i cibi; e quelli tornavano a casa senza nulla, felici di non essere arrestati perché non si erano accontentati di procurare il cibo con le Tessere Annonarie che, nate per garantire l’equa distribuzione delle scarse risorse alimentari, garantivano sicuramente la morte per inedia. Qualcuno ha fatto denaro con questi sequestri: una delle Guardie Annonarie, secondo la gente, aveva acquistato una magnifica casa con giardino e alberi da frutto.

.Il potere fa ricchi molti “onorevoli,” non tutti, ma sempre troppi. Forse la mia perenne allergia ai partiti politici nacque dalle notizie apprese in quel periodo della mia adolescenza. Le truppe americane erano ormai vicinissime, e tutti sapevano che la guerra era finita, almeno in Italia. Non si vedevano più militari, fascisti o tedeschi, solo “partigiani” con fazzoletto rosso o verde al collo. Ma quelli che vedevo non erano stati in montagna per la resistenza ai tedeschi, erano quelli dell’ultima ora, quelli che ho sempre visto in paese, (alcuni dei quali erano stati attivisti fascisti fino a sei mesi prima), e si davano aria di guerrieri, portavano la pistola alla cintura o il mitra a spalle. Hanno fatto una “svolta politica”, secondo l’usanza italiana. E si misero a rubare anche loro, svuotando tutto il palazzo delle scuole elementari di Montichiari, adibite a caserma dei soldati tedeschi: pubblicamente facevano uscire letti militari con materassi e coperte, scrivanie e macchine per scrivere. E nessuno poteva intervenire: erano pericolosi momenti di mancanza di protezione, la legalità era scomparsa. Essi erano chiamati, sottovoce, gli “S-partigiani”.

Fu un bel giorno quando finalmente tutto il paese corse in piazza: i carri armati delle truppe americane e le camionette sfilavano rombando sull’acciottolato, e tutti in tripudio: era la fine della guerra e della paura. Sempre nel nostro edificio scolastico si installarono gli americani e per la prima volta vidi gli uomini di colore. Ero impressionato dai loro visi neri sui quali spiccavano i denti bianchissimi, dai loro modi disinvolti. Questo è uno dei tanti ricordi della seconda guerra mondiale, che credevo dimenticati, dopo mezzo secolo di assenza da Montichiari.

Da adulto penso che l’uomo sia l’animale più feroce del nostro pianeta. Gli animali carnivori uccidono per vivere. L’uomo uccide soprattutto per avere il Potere. Questo presuppone la guerra. I dittatori, da sempre, decidono di iniziare una guerra per ampliare il loro potere provocando massacri di migliaia di persone. Altri uccidono per vendetta, o per rubare i beni di un’altra persona. La mafia, lo fa per dimostrare il suo potere. Molte volte i governi iniziano la guerra per incrementare le industrie in crisi (vedi Bush) e, per avere il consenso del popolo, raccontano atti di crudeltà ed efferatezze di un dittatore, (vedi Saddam Hussein) alcune vere e alcune inventate. Fu accusato di detenzione di armi per la distruzione di massa: una pura menzogna per poter iniziare la guerra. La TV, dopo la sua nascita, fu, e può essere ancora, un grande mezzo per la diffusione di grandi bufale.

Il massimo dell’orrore sono le guerre di religione, da sempre scoppiate, come le numerose Crociate indette da Papi cristiani, per importare migliaia di “reliquie” che erano vendute a prezzi enormi. Molti dei cosiddetti crociati andavano per rubare impunemente. In questi ultimi anni è nata un’altra guerra, mai avvenuta prima: assassini che si suicidano facendosi scoppiare esplosivi sotto la giacca, per andare in paradiso, convinti e pagati da capi che, di sicuro, non si suicideranno mai. Loro probabilmente odiano la nostra libertà di vita, e lasciamo libere le nostre donne di scegliere di vestire come meglio credono.

La pima volta che montai a cavallo avevo 30 anni e il maestro d’equitazione mi guardava con aria di compatimento. Probabilmente aveva altri allievi in età matura con pancetta che avrebbero ottenuto migliori risultati in palestra o pedalando all’aria aperta. Io cercavo l’emozione, sognavo il piacere delle cavalcate a briglia sciolta in spazi aperti, come nelle vecchie pellicole western. Ogni domenica frequentavo un galoppatoio e cominciai in esso i primi passi nel pavimento coperto da mezzo metro di segatura. Ottenere una postura eretta, tenere le briglie in modo appropriato e soprattutto “battere la sella” non fu semplicissimo; per qualche giorno sento i muscoli delle gambe e i glutei doloranti, poi i primi salti all’ostacolo, divertenti e spesso il cavallo intuiva la mia imperizia e si bloccava di colpo a ridosso dell’ostacolo obbligandomi a un atterraggio volante dall’altra parte. Venne poi il tempo delle prime uscite con altri allievi accompagnati dal maestro e più tardi finalmente potei uscire da solo; uno dei ricordi piacevoli in campagna quando adocchiai un grosso gelso carico di more. Mi avvicinai e ci satollammo, con i frutti per me, che coglievo facilmente stando in sella, e lui con le foglie.

Passarono anni senza più cavalcare, il lavoro prendeva tutte le mie giornate, solo la sera potevo essere libero e mi appassionai al karate; le emozioni che mi regalava quell’allenamento bastavano a riempire le mie sere- Dopo tre anni ebbi la mia cintura nera: fu a causa di un incidente a cavallo, noleggiato una domenica, dopo tanto tempo che non cavalcavo, che mi ruppi il femore e fui costretto a rivedere le mie scelte di vita..

Il gruppo dei 10 cavalieri doveva correre tra le file ordinate dei pioppi e l’ultimo che legherà le briglie al recinto dell’osteria dovrà pagare il caffè agli altri nove.

Il cavallo stretto fra le mie gambe mi fa sentire tutta la forza dei suoi muscoli, l’ebrezza della corsa nel vento e il battere degli zoccoli sul terreno erboso mi rendono pieno di gioia, la vita è esaltante, batto la sella con piacevole sforzo e non vorrei più fermare il grande animale che sento di dominare, ma errai: per un motivo che non sto a spiegare, il cavallo punta gli zoccoli, si gira di 90 gradi e io volando vedo il tronco del pioppo che si avvicina velocissimo, batto con il femore destro e cado a terra di schiena; scorgo a fatica la gamba colpita che più corta di una spanna e molto ingrossata . Un lungo incubo fino all’arrivo di soccorsi: sicuramente nel vedere il cavallo senza il cavaliere verranno. Qualcuno venne e chiamò l’ambulanza- morsi il labbro per non urlare nel trasferimento sulla barella. Poi sulla autolettiga ad ogni bucai o dosso, dolori tremendi da Capriano del Colle, dove c’era il pioppeto, fino all’ospedale a Brescia.

Al risveglio, dopo l’intervento guardai le mie gambe e non volli credere ai miei occhi: la parte inferiore del femore, con ginocchio e piede, erano girati di 35 gradi verso l’interno, cioè verso la gamba sinistra: quella che, prima di entrare in ospedale era sana ! Aveva il piede che cadeva vero il basso, penzolava in giù, inerte e freddo.

Che cavolo c’entra il piede sinistro con la frattura della gamba destra?

Dopo esami vari nei vari reparti ospedalieri spinto con la carrozzella la verità viene a galla. Due errori del medico ortopedico:

1 ) ha riattaccato il femore con viti e piastra metallica, come di norma, ma con intra rotazione di 35 gradi. In pratica ginocchio e piede sono girati verso la gamba sinistra.

2 ) Legando la gamba sana sull’apposito cavalletto per fermare il corpo del paziente, è stata omessa l’imbottitura necessaria per proteggere da strappi allo SPE, un nervo che comanda gli impulsi al piede. Il piede rimane in “equinismo” proprio com’è messa la zampa degli equini. Ebbi 2 incidenti : il primo col cavallo, il secondo con l’asino che mi ha operato. E non esagero, visto che quel signore in pochi mesi ha sbagliato una quarantina di’ interventi ed è stato costretto a dimettersi.

Unica consolazione: se l’impatto ai 60 all’ora fosse avvenuto con la spina dorsale o la testa, non potrei ora scriverne.

Una volta dimesso dovetti attendere settimane per potermi muovere e camminare, circa un anno per recuperare all’ottanta per cento l’uso del piede sinistro e la gamba destra rimase intra rotata. Questa condizione m’impedì di riprendere il karate ma potei ancora arrampicarmi sulle montagne per un paio di anni fin che i legamenti delle ginocchia e le cartilagini si logorarono per la mia postura insolita; dopo una fase lunga di apprendistato mi dedicai alla vela e per il resto della vita navigai come skipper. Ora l’età e i postumi dei 2 vecchi incidenti m’impongono lo stop. Non riesco più a saltare sulle barche. Sto a casa con mia moglie, il computer e un buon numero di libri.

Se un giorno lontano in Via 25 Aprile hai notato un quattordicenne in bicicletta gridare “ Checco” e un grosso Corvo volare dai tetti sulla sua spalla, vuol dire “che tè set dè Munticiar” e che ora hai almeno la mia avanzata età.L’amicizia e l’amore tra me e Checco nacque a Ossimo Superiore, nell’alta Val Camonica. E’ li che trascorrevo dai parenti le mie vacanze. E, oltre a lunghe camminate in montagna, i miei parenti notarono la mia curiosità rivolta ai Corvi e mi promisero che ne avrebbero preso per me uno dal nido. Quando tornai in Lambretta, il celebre motoscooter Innocenti, derivato da quelli dei Parà, vidi nel sottoscala, al buio, il grosso becco e i due occhi del corvo che mi fissarono: “Bruno, prendilo, devi essere tu che devi metterlo nello scatolone di cartone, con un buco perché possa respirare durante il viaggio di ritorno. A quel tempo la parola “Imprinting” era nota solo ai naturalisti, ma i montanari sapevano di questo comportamento di molti animali.

Sulla via del ritorno, con una media dei 35 Km/ora (tornanti vari) impiegai oltre 4 ore, mentre la testa del corvo spunta sempre dal buco del cartone legato sul portapacchi , vigile e interessato al percorso. Ogni ora mi fermavo e gli parlavo.

Nella tappa sul lago d’Iseo comprai due pesche, una per me e una rotta in tre pezzi che Checco – il diminutivo camuno di Francesco- ingollò felice. Da allora fummo amici: a casa lo lasciai libero in cortile, da dove ogni tanto decollava per i primo voli, poi iniziò le sue battaglie coi vicini di casa, volando nelle finestre , e quando lo trovavano in camera da letto, mentre trafugava monetine, anellini e tutto ciò che brilla erano guai. Sorpreso dai padroni di casa sul comò allargava le ali spalancando il becco emettendo un furioso Craa-craa ! Solo con la scopa tornava in cortile per infilare il maltolto nei buchi della vecchia muraglia. Dovevamo recuperare gli oggettini e le monete e scusarci ogni volta con i vicini. Durante un’influenza che mi tenne a letto per tre giorni Checco rimase appollaiato sul capezzale ininterrottamente ; mia madre ogni tanto doveva pulire i guano che cadeva a terra.Ogni mattina, saliva nella mia camera e mi svegliava beccando con delicatezza il lobo dell’orecchio e sentivo il suo fiato caldo sulla faccia. Insomma eravamo una coppia affiatata, anche nel senso letterale. Ubbidiva e si lasciava pendere solo da me. I guai aumentarono quando prese l’abitudine di divertirsi a fare cadere in terra i bicchieri lasciati vuoti dai clienti dell’osteria sul tavolo di cemento in cortile. Prendeva col becco il picchiere vuoto, zampettava sull’orlo e lo lasciava perché si frantumasse in terra: a quel rumore di vetri infranti allargava le ali e emetteva dei felici Craa –Craa, vere e proprie risate.

I miei genitori, stanchi dei lamenti dei vicini mi convinsero a prenderlo e io; come Giuda, lo chiamai dal tetto e lui si pose sulla mia spalla e lo consegnai a dei contadini che erano giunti per “portarlo in campagna”. Sapevo che non lo avrei perso per sempre. Seppi poi che fu ucciso a sassate dai ragazzi della cascina.