Sono uova di anatra quelle che vedi sui banchi del mercato all’aperto di Guilin. Le chiamano “uova dei mille anni”. Messe sotto calce e sale e tenute per molte settimane in vasi di cotto, la calce ed il sale filtrano nei pori del guscio. L’albume diviene di un verde solido, il tuorlo diventa nero e duro. Poi sono sepolte nel fango per conservarle. Teoricamente si conservano per secoli, ma un paio d’anni bastano per gustarle: sono una delizia servite a sottili fettine, tipo tartufo, anche nel prezzo. Dopo quell’antipasto la tentazione è stata forte quando ho letto sul menù “dog mit”, carne di cane. L’avrei forse ordinata, ma quel giorno la cucina ne era sprovvista. “Se Lei ordina oggi, domani pronto grande piatto di cane”. Non ho avuto il coraggio di ordinarlo. I cani che si vedevano nelle strade della “vecchia Cina” degli anni ’80 non erano vivaci e nemmeno carini: pelo raso,mezza taglia, non scodinzolano e nemmeno abbaiano; sembrano più pecore che cani. Avevo assaggiato qualche anno prima il cane in occasione di un viaggio a Singapore: fu su una giunca allestita a ristorante, dove una sera servirono un cervo arrostito al forno tutto intero, ben rosolato, ma senza testa. Aveva però una lunga coda. Fu posato sul tavolo e il gruppo dei miei accompagnati cominciò a gustare l’arrosto. Piccole lampadine e autentiche orchidee avvolgevano le sartie. A terra le luci della città con i suoi grattacieli facevano da sfondo. Splendido banchetto per una dozzina di persone. Il cervo era ripieno di uova
sode di gallina. Ma la coda sottile di discreta lunghezza e la mancanza della testa mi fecero dubitare che i cervi fossero selvaggina locale, vista la latitudine di Singapore. Comunque non potevano avere una coda così lunga. Corruppi il cameriere con un biglietto da 1 dollaro e quello mi disse candidamente che avevamo mangiato un cane. “Il cuoco detto noi dire cervo perché europei non mangiare cani”. Tenni per me la scoperta. La giunca all’ancora rollava leggermente e la rivelazione avrebbe provocato a molti dei miei accompagnati un trasferimento del pasto in mare. Torniamo al viaggio in Cina: è prevista dal catalogo un visita in bicicletta ad una “comune agricola”. I miei sedici accompagnati si danno allo shopping nella città (una delle più piccole delle grandi città della Cina,Guilin, conta “solo” un milione di abitanti nel 1982). In agosto quel milione di abitanti vive nelle strade e nelle piazze. Tornato in Italia i miei famigliari mi chiesero come sono i cinesi e spontaneamente dico “tanti”. Cerco di comunicare al noleggiatore di biciclette il mio intendimento: diciassette bici per domani alle ore 9 ed un cinese parlante inglese che ci accompagni in una comune agricola. Capisce il numero 17 scritto su foglio e comincia a contare le biciclette.

Venditrice di The a Shangai

Per un’ora circa chiedo ad ogni passante vestito all’europea: “do you
speak english?”. Un cortese sorriso e via. Finalmente un giapponese, probabilmente un uomo d’affari, saputa la mia richiesta scrive sulla carta una fila verticale di ideogrammi, non più di una dozzina. Lui non parlava il cinese, ma il mattino dopo c’era ad attenderci uno studente cinese che ci accompagnò e ci spiegò in perfetto inglese gli usi e costumi della comune agricola. Scoprirò più tardi che imparando a scrivere e leggere un centinaio di ideogrammi è possibile comunicare, solo per iscritto, con molti dei popoli del sud oriente asiatico; i suoni sono una cosa diversa e variano fra i mille dialetti e lingue diverse. Gli ideo grammi esprimono appunto idee, concetti e cose: sono dei piccoli disegni stilizzati. Simpatico l’approccio col tassista cui chiesi di portarmi all’aeroporto. Airport. Mi fece ripetere la parola ed io evidenziai le consonanti: ai r po r t. Lui scoppiò in un a grande risata vedendo la mia lingua che vibrava pronunciando la erre. Mi rammento che nella lingua cinese non esiste la erre. Gli faccio capire la destinazione sbattendo le braccia come ali. In Cina non esisteva la possibilità di prenotare più tratte di volo, non avevano il computer. Ogni volta code e spintoni in aeroporto, sperando di trovare il posto per diciassette persone. Nell’ultimo viaggio interno di quell’enorme paese, trovai solo nove posti. Arrivai a Shangai di notte e l’aeroporto era in pieno ammodernamento: operai giapponesi vi stavano allestendo tutte le innovazioni moderne: tabelloni degli arrivi ecc. Provvisorie lavagne con scritte in gesso in ideogrammi informano gli orari dei voli. Esco sulle piste all’arrivo di ogni aereo per vedere fra le centinaia di persone vi erano le mie sette pecorelle. Poi un drappello di militari con fucile a tracolla mi circonda; fortunatamente non sono minacciosi e sorridono: cerco di giustificare le mie invasioni della zona riservata alle piste di arrivo, ma è come parlare al vento. Mi conducono in un ufficio, dove gentili impiegate telefonarono e mi informano dell’ora di arrivo dei miei accompagnati. Ora la Cina è profondamente cambiata. Tante automobili, grattacieli, smog, acqua inquinata anche nelle campagne, cantieri ovunque. Preferisco ricordarmi quella delle mille biciclette e dei lunghi autobus a soffietto.