Ero un ragazzino che frequentava la scuola elementare e fui costretto a vivere e fare i compiti in un’osteria; riuscivo a viverci isolandomi da quegli scoppi di voci, risuonanti dal soffitto ad arco. Abitavo nell’odierna via 25 Aprile, facevo velocemente i compiti e leggevo libri, fumetti che scambiavo con altri amici, e un giornale quotidiano, generalmente il Corriere della Sera. La lettura rapiva completamente la mi attenzione ed era come se fossi messo in una campana di vetro. Nessun scoppio di voci o canti da osteria che i lavoratori dei campi, (Montichiari centro era molto piccolo nel 1937 e i clienti dell’osteria giungevano quasi tutti, specialmente al mercato del Venerdì in paese dalle varie frazioni, sempre tutti a piedi) Le biciclette erano care ed erano per molti un lusso da tenere in casa. Era inconcepibile lasciarla fuori non sorvegliata.

La mia salvezza fu che, a pochi metri da casa, vi era la Biblioteca Comunale, ricca di libri: era per me il più bel negozio di giocattoli. Sceglievo libri molto grossi, con molte pagine, perché più di un volume la bibliotecaria non mi permetteva di portarlo a casa.

Avvenne che lessi tutte le novelle di Guy de Maupassant, poi tutti i libri di Emilio Salgari, e parecchi volumi zeppi di storie romantiche di altri autori dell’ottocento.

Dal 1940 eravamo in guerra; tutti i paesi europei imposero sanzioni economiche all’Italia e alla Germania le famose Sanzioni: non si poteva esportare o importare niente, ne cibi ne materie prime e tanto meno stampa, libri, o fumetti. Vi era nelle edicole il Corriere dei Piccoli e giornalini di fumetti.

L’Italia era alleata con la Germania di Hitler ed era in guerra contro l’Inghilterra, la Francia e più tardi giunsero i bombardamenti dagli Stati Uniti d’America. Sulla stampa, ma soprattutto sui muri delle case in tutta Italia, (alcuni si vedono ancora sui muri di vecchie case di paesini di montagna) si leggevano gli slogan Mussoliniani:

Libro e Moschetto: Fascista perfetto.

Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi !

E’ l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende!

Avanti verso la vittoria: Vincere o Morire

E la realtà 5 anni dopo superò la retorica!

Durante i miei anni della scuola elementare c’era il Sabato Fascista: mia madre dovette ritagliare da un cappotto militare della guerra 1915-18 e tinse di nero una camicia chiara: era la divisa del Figlio della Lupa capitolina e in quinta fui un Balilla. Il copricapo si chiamava Fèz donato dal Partito: la divisa fu completa. Bisognava indossarla ogni sabato pomeriggio, dove si marciava, stava sull’attenti e poi, in posizione militare di riposo, si ascoltava il discorso del Podestà o del Commissario del Partito, ovviamente l’unico partito. Questo succedeva nelle piazze dei paesi e città d’Italia. Stavo ovviamente zitto, ma dopo decine di “Sabato Fascista” e le mille volte nei “Film Luce che proiettati ogni giorno al cinema, e vedere mille volte quelle mascelle protese, quelle mani sui fianchi sul balcone di piazza Venezia, detestai il fascismo. Seppi, dopo la fine della guerra, un fatto accaduto durante la dittatura: del fascismo: a Roma durante un grande raduno di giovani universitari, un gruppetto, capitanato dagli studenti Fruttero e Lucentini, aveva stampato con il “piccolo tipografo” un gioco per bambini aspiranti giornalisti- sulle fasce interne delle stelle filanti c’erano frasi contro il fascismo, Mussolini, l’Impero, Ciano, Starace e altri gerarchi del PNF. I congiurati si mescolarono cautamente nel grande gruppo di studenti, lasciando cadere dalle tasche della giacca le stelle filanti con le scritte sovversive. Gli studenti inebriati non lessero le frasi: raccolsero le stelle filanti e le gettarono festosamente in aria. Per mezz’ora il radioso cielo di Roma e il cortile dell’Università furono gremiti da quelle frasi, che deridevano il “genio della nostra Razza”. Solo Lucentini fu arrestato, deferito al Tribunale Speciale, e rinchiuso per sei mesi a Regina Coeli. Poi fu cacciato nell’esercito. Non era mai esistito un soldato così infimo. Marciava fuori tempo, non capiva i comandi, dimenticava lo zaino, allacciava male gli scarponi, non salutava col focoso battere dei tacchi, non si abbottonava bene la giubba: era l’infame del reggimento. Ma grazie al suo talento Lucentini si salvò. Come tutti i militari aveva appreso i tempi di smontaggio e montaggio del fucile dell’Esercito italiano. Cominciò a studiare: prese appunti, osservò i movimenti dei soldati col fucile, l’ordine seguito nel montare e rimontare, individuò i gesti superflui, i tempi vuoti. Dopo un mese di studi e di prove, Lucentini inventò un metodo di caricamento nuovo, che risparmiava un terzo del tempo di caricamento e scaricamento, fino allora necessario. Quando un ufficiale scoprì che il peggiore soldato dell’esercito aveva inventato un sistema rivoluzionario, che forse avrebbe permesso di vincere la guerra. Finì la guerra, per fortuna persa, altrimenti saremmo ora nipoti “ariani” di Hitler. Lucentini tornò a fare lo scrittore di romanzi con Fruttero: scrissero sempre romanzi a quattro mani. I loro libri erano firmati – Fruttero e Lucentini -ora sono scomparsi, ma i romanzi della coppia di amici sono ancora venduti o si trovano nelle biblioteche.

Pubblicato sul mensile di mare Bolina

Doveva essere grosso, anzi gigantesco, perché la notte sentivo i
suoi passi sul legno del pagliolato. Non è piacevole addormentarsi
pensando di posare nella notte inavvertitamente un piede sul
pavimento e sentire il morso di una pantegana. Perciò ho ceduto al
ricatto del marinaio dominicano: lui si fa prestare da un amico una
grossa trappola e io gli concedo due giorni di ferie.
Sacrifi col’ultimo pezzetto del formaggio di grana portatomi dall’Italia e
spero di catturare il clandestino, probabilmente salito a bordo
quando sono andato a fare acqua dolce nel porto de La Romana, circa
10 miglia dalla rada dove passo la notte nella barca di 14 metri
all’ancora. Ma il topo non abbocca. Pernotto nella rada da un mese,
in attesa del mattino, quando dal villaggio turistico mi portano una
dozzina di persone da imbarcare sul vecchio Ketch di 14 metri. Li
porto a visitare l’isola di Saona, disabitata e lussureggiante di
vegetazione tropicale. L’attrattiva maggiore non è la spiaggia
della Saona ma i due alberi di un ketch che spuntano dall’acqua:
una barca naufragata sul rif due anni prima. I due francesi che
sbarcarono sull’isoletta si attardarono troppo, cambiò il vento,
che girò verso terra, l’ancora arò e la barca fi nì sulla madrepora.

È bello con maschera e pinne visitare il relitto. Ma io sono sceso a terra,
lasciando la barca di cui ero responsabile all’ancora, solo una
volta, per fotografarla da terra. Mi sento un taxista, anzi un
tranviere, perché da un mese percorro sempre la stessa rotta
quotidiana: 16 miglia per 110 gradi, ancoraggio e sbarco dei
passeggeri da parte del marinaio che li porta a terra. Finita
la visita alla spiaggia dell’isola, spaghettata alla carbonara in
barca, preparata dal sottoscritto, poi ritorno per 290 gradi. Unico
divertimento: il vento, sempre sostenuto. C è quasi ogni giorno ed è
sempre al traverso, sia all’andata che al ritorno.
La notte la barca mette la prua al vento, che viene da terra, mentre l’onda
oceanica arriva al traverso, svegliandomi con rollate. L’armatore
non aveva dotato la barca di una seconda ancora, per fermare la barca
con la prua verso il largo, da dove arrivano le onde. Spesso sono
svegliato da uno dei soliti pescatori che mi chiedono un poco di
miscela dal serbatoio del tender. Ormai la barca che gestisco è
diventata una specie di self-service notturno per i pescatori della
zona. Chiedo lumi a loro, la notte seguente: cosa devo usare per atti
rare un topo in trappola ? “Senor, i topi di Santo Domingo non sono
abituati al formaggio: necessità una banana!” Pongo una banana
nella trappola e la notte stessa vengo svegliato da uno scatto
metallico seguito da un acuto, potente squittio disperato, tipo il
grido del maiale quando viene portato al macello: finalmente l’ho
beccato.

Capitani coraggiosi?

Il comandante del TITANIC Edward J. Smith

Il comandante del CONCORDIA Francesco Schettino

Il Titanic aveva a bordo un equipaggio composto da maggiordomi, camerieri e cuochi, era una residenza galleggiante di 45.000 tonnellate, considerata indistruttibile dagli armatori, e il capitano aveva un ruolo di gestore di uno stabilimento balneare. Le scialuppe di salvataggio non erano sufficienti per tutti i passeggeri della nave. Nulla di eroico, il capitano, nonostante i suoi 34 anni di esperienza, si comportò quella notte dell’aprile del 1912 più come un albergatore che come marinaio: aspettò 25 minuti prima

di lanciare il primo SOS inoltre, per non allarmare i passeggeri, ritardò l’ordine di abbandonare la nave e quando ciò avvenne molti passeggeri si diressero verso le scialuppe di salvataggio, ma altri dormivano o passeggiavano in coperta. Molti vollero stare sulla nave perché pensavano ancora di essere più al sicuro.

Joseph Conrad, che era stato marinaio per molti anni prima di lasciare il comando di una nave per dedicarsi alla scrittura, pubblicò riflessioni in merito: si chiedeva amaramente come si possa

costruire una nave con sottili lastre di acciaio arredata con uno stile faraonico per lanciarla a 21 nodi sapendo di essere in zona iceberg.

Le riflessioni di Conrad potrebbero essere attuali dopo un secolo, solo che Smith affondò con la sua nave. La descrizione dell’abbondanza di camerieri e cuochi e la scarsità di marinai come Il comandante del CONCORDIA Francesco Schettino, come il Titanic aveva a bordo un equipaggio composto da maggiordomi, camerieri e cuochi, era una residenza galleggiante di 45.000 tonnellate, considerata indistruttibile dagli armatori, e il capitano aveva un ruolo di gestore di uno stabilimento balneare. Le scialuppe di salvataggio non erano sufficienti per tutti i passeggeri della nave. Nulla di eroico, il capitano, nonostante i suoi 34 anni di esperienza, si comportò quella notte dell’aprile del 1912 più come un albergatore che come marinaio: aspettò 25 minuti prima di lanciare il primo SOS inoltre, per non allarmare i passeggeri, ritardò l’ordine di abbandonare la nave e quando ciò avvenne molti passeggeri si diressero verso le scialuppe di salvataggio, ma altri dormivano o passeggiavano in coperta. Molti vollero stare sulla nave perché pensavano ancora di essere più al sicuro.

Joseph Conrad, che era stato marinaio per molti anni prima di lasciare il comando di una nave per dedicarsi alla scrittura, pubblicò riflessioni in merito: si chiedeva amaramente come si possa costruire una nave con sottili lastre di acciaio arredata con uno stile faraonico per lanciarla a 21 nodi sapendo di essere in zona iceberg.

Le riflessioni di Conrad potrebbero essere attuali dopo un secolo, solo che Smith affondò con la sua nave. La descrizione dell’abbondanza di camerieri e cuochi e la scarsità di marinai fu simile. Ma la vigliaccheria di Francesco Schettino è immensa e storicamente unica. Fu il primo ad abbandonare la nave, visto che era praticamente appoggiata a terra. Famosa la conversazione via radio di Schettino con il comandante della Capitaneria di Livorno: “Le ordino di risalire sulla nave, ma Schettino si lamentò che cera buio e non poteva risalire: “ E’ un ordine : risalga sulla nave cazzo !”

AVVENTUROSO TRASFERIMENTO.

Un avventuroso trasferimento di una barca d’epoca in legno di 16 metri e due alberi: una Goletta.

Il mio amico Andrea mi propone di trasferire una barca da Bari a Marina di Ravenna e si offre come equipaggio. L’armatore, un professionista bresciano, ci informa dell’ubicazione del pontile, un po’ staccato dal porto turistico. Arriviamo a Bari col treno, localizziamo da lontano la solitaria barca ormeggiata all’unico pontile. Una muraglia alta due metri chiude l’accesso al pontile e ci dirigiamo verso la porta: un attimo di perplessità per un gruppetto di cani randagi che si aggira proprio tra noi e l’entrata.

Andrea mi segue mentre lentamente attraverso il gruppo, evitando di guardare i cani negli occhi. Saliamo ed entriamo nella barca: cerco di accendere il motore ausiliario diesel, ma le batterie non danno segno di vita.

Riesco a trovare un elettrauto, che munito di un booster fa partire il motore. Dobbiamo poi lasciare acceso il motore perché si ricaricano le batterie: grosso dilemma, quanto gasolio ci sarà nel serbatoio ? Impossibile accertarlo. Chiedo all’elettrauto come si possa fare il pieno, ma sconsiglia di entrare nel marina: nei giorni feriali , per dipiù fuori stagione, il distributore del porto è chiuso. Decido di partire per entrare nel porto di Trani, a circa 30 miglia, prima che faccia notte; conosco il porto, dove vi è un distributore di gasolio che funziona tutti i giorni.

Lascio alla dea fortuna il compito di assisterci fino al distributore, vista l’assenza di vento. E a Trani finalmente il serbatoio è pieno. Usciamo a cena in un ristorantino, facciamo qualche passo e assistiamo allo struscio serale. La prima volta che feci sosta a Trani, tipica cittadina del sud, il passeggio serale era uno spettacolo gradevole, i giovani e le ragazze camminavano intorno ad un grande piazzale, una lunga processione, dove gli uni ammiravano le altre, con reciproci sguardi: questo era lo struscio che mi rammenta la poesia Leopardiana “ Il sabato del villaggio”. Le successive tappe a Trani nei vari trasferimenti in Grecia, seduto sulla panchina mi accorsi che ogni dieci minuti la stessa macchina passava e così notai stupito che tutte le altre giravano continuamente: lo struscio era fatto in macchina ! E’ un “non senso”: effetti deleteri del diffondersi della motorizzazione. Torniamo a dormire nei nostri sacchi a pelo in barca. Il mattino puntiamo verso una tappa più a nord, se il vento sarà a favore ovviamente potremo navigare per 24 ore filate per avvicinarci alla meta. Dipenderà dal vento, spesso.

Invece dipese dal mal di mare del “marinaio“ Andrea. Giunti al promontorio del Gargano, ripara dal vento da nord-est ma le onde sono notevoli per il fondale basso, – il Gargano è una montagna che scende dolcemente sotto il livello del mare. Il mio compagno di viaggio è steso in pozzetto e non parla più. Continuo a timonare, vi è un bel tramonto, telefono a casa per descriverlo a mia moglie. Per fortuna il pilota automatico funziona e scendo al tavolo di carteggio per vedere com’è l’entrata del porto “Marina del Gargano”. Mi accuccio vicino al marinaio e gli chiedo se riuscirà a scendere dalla barca, dopo l’entrata nel porto, dove non ci sono onde, per darmi una mano all’ormeggio. Non risponde ma alza il pollice. Ok, risposta positiva, entro. Vi è un lungo pontile libero, fisso alle due bitte di prua e poppa le cime di ormeggio pronte da lanciare e accosto: lui salta sul pontile e trattiene la cima di poppa a mano, cercando di trattenere l’abbrivio delle tonnellate della barca di 16 (metri. Fortunatamente la barca è ben costruita e con la marcia indietro la freno e la riporto indietro senza deviazioni, come fosse un’automobile, salto a terra e corro fissare le cime alle bitte del pontile. E’ ormai notte e nessuno si avvicina. E’ buio e il cancelletto della recinzione di ferro era chiuso. Il mio amico Gianfranco riesce a far scattare la serratura con il coltello tascabile e prima di uscire mettiamo un pezzetto di legno per accostare il cancelletto senza far scattare la chiusura. Andiamo in cerca di un ristorante: a Rimini, fuori stagione, non esisteva alcun ristorante o albergo per una cena. Riuscimmo a trovare la mensa ferrovieri e ci accontentammo di una pessima zuppa di pesce scongelata. Torniamo al porto: il cancelletto era chiuso. Da fuori non era possibile entrare. Che facciamo? Dentro un’auto, ferma vicino alla recinzione, c’è una coppia abbracciata. Aspettiamo 15 minuti poi l’uomo esce dalla macchina e si dirige da noi, fermi al cancellino: gli raccontiamo il nostro problema che lui risolve subito “ Ho la mia barca qui e vi apro con la mia tessera magnetica”. Questa è la solidarietà fra marinai. Aspettammo nel porto di Rimini un intero giorno, perché fuori c’erano onde frangenti. Il mattino seguente, decido di andare verso l’uscita: sapevo che i bassi fondali provocano onde alte che entrano in porto, ma la mia esperienza mi permise di affrontare la difficoltà. Acceso e riscaldato il motore molliamo gli ormeggi e lentamente sfiliamo davanti alle due lunghe file – destra e sinistra – mentre i marinai sventolano la mano attraverso la faccia per dire che eravamo pazzi per uscire con quelle onde giallo/grigie per la sabbia del basso fondale.

Gianfranco grida per superare il rombo delle onde: “ Decidi, tra una decina di metri siamo al punto di non ritorno! “Ok urlo, attaccati bene”.!

Dò tutto gas vedendo un’onda che sta per giungere in entrata e la barca si arrampica sull’onda e scivola veloce contro la prossima, che già è fuori dal fondale basso e sabbioso. Il pericolo di battere la pinna contro il fondo e far traversare la barca con la sua rovinosa perdita e probabilmente il nostro annegamento, che è stato annullato dall’esperienza e soprattutto da un po’ di coraggio . I pescatori non sarebbero usciti con quelle onde, perché i loro pescherecci non possono fare queste velocissime accelerate con il loro enorme peso. Dopo due giorni giungiamo al cantiere di Marina di Ravenna attracchiamo nella notte guidati dalla voce del capocantiere con il VHF, la radio trasmittente e ricevente in dotazione a qualsiasi barca o nave. E’ stato il trasferimento di poche miglia, circa 6oo, (1000Km) il più lungo per i tempi morti. Tanti giorni, quanto una traversata atlantica.

GENTE CHE VIVE IN BARCA (vari personaggi)

Ci sono migliaia di persone che lo fanno e non sono tutti ricchi o in pensione. Negli anni in cui navigavo come skipper trasferendo le barche a vela, ho incontrato un arcobaleno di giramondo: ventenni e ottantenni, poveri e ricchi, coppie etero e gay, intere famiglie, con tanto di gatto o cane. La mia amica Nancy che vive in Australia ha cinque figli a bordo, tre dei quali sono nati in barca. Ormai non mi stupisco più quando incontro bambini e ragazzi che non sono mai andati a scuola ma hanno un bagaglio culturale da far invidia. Oltre alla mamma/maestra, questi giovani imparano dal mare, dagli animali, da persone che spesso non parlano la loro stessa lingua. Stando con loro mi stupisco sempre della loro maturità. Sono responsabili, autonomi e lavorano duro. Scalzi, abbronzati, sani e sorridenti. Sono anche molto intraprendenti, organizzano giochi e feste a riva, scrivono articoli per il giornalino locale, costruiscono una capanna e la battezzano “circolo nautico”. Due bambini che ho conosciuto si guadagnano la paghetta mensile vendendo conchiglie o sassi dipinti. Un giorno hanno guadagnato addirittura 73 dollari che hanno investito portando i genitori a cena fuori!

Altro esempio raccolto, da due pensionati.

Dal punto di vista finanziario è molto più facile sopravvivere in mare che a terra. Non ci sono bollette, tasse, bolli da pagare. Noi due per esempio viviamo con 800 euro al mese, mantenimento della barca incluso. Alcuni spendono molto di più, altri molto di meno. Chi è in pensione generalmente non ha problemi, i giovani invece devono essere intraprendenti. C’è chi vende o affitta il proprio appartamento, molti lavorano via internet, altri ancora di tanto in tanto lavorano in porto. Molti lavorano per sei mesi per poi viaggiare l’altra metà dell’anno. Non posso negare che l’instabilità finanziaria sia una componente di questo stile di vita. Ma è una scelta. Se vuoi la libertà, accetti l’instabilità.

La REPUBBLICA DI PANAMA

Andai a Panama con una barca a vela nel 1996, e ci rimasi pochi giorni: era una tappa del Rally intorno al mondo organizzato dalla RAF (Royal Air Force) Ebbi poi occasione di consegnare una barca nel porto di Panama e mi fermai sulla barca in attesa dell’armatore romano che venne dopo due settimane. Conobbi un pensionato americano, Robert, che era mio coetaneo, viveva a Panama da 4 anni sempre sul suo bel veliero d’epoca, in legno pregiato. Aveva a bordo anche uno spazio notevole per un ufficio con TV, computer, stampane, e ovviamente collegato a terra con corrente elettrica. In tutto quel tempo Lui abitava da 4 anni in quel porto, e spesso si faceva portare in barca un pranzo completo caldo da un ristorante di classe: Robert era un pensionato di lusso. Per tenersi la mente attiva scendeva a terra e fece molte amicizie. Descrisse a fondo il modo di vita dei panamensi. Tra velisti è facile stringere amicizia e seppi da Robert, che parla anche in spagnolo e sapeva tutto sul popolo della piccola Repubblica di Panama. Nel mio libro “Racconti di Mare e di terre lontane” descrissi Panama dal punto di vista dello skipper, difficoltà varie per l’ormeggio di notte all’ancora. Da lui ho saputo tutto sull’attuale popolazione, ben più precisa e approfondita della mia di molti anni prima. Mi dettò tutto ciò che aveva scritto e io lo digitai sul suo computer. Poi passai il contenuto nella chiavetta USB.

Panama è Paese “bendito por Dios” -Benedetto da Dio- la sua posizione geografica, ad ansa, lo protegge da uragani, cicloni e altre calamitá naturali, che affliggono ciclicamente il centro-America. Mi spiega che anche per questa ragione il famoso Canale è stato costruito proprio qui !

E i panameñi, tutti, vanno giustamente orgogliosi di questa immane ‘via di transito interoceanica’. E l’orgoglio patriottico è diffuso. “Orgullosamente hecho (nato) en Panama”. “Un Canal, un solo nombre: Panamá”. Questi alcuni degli slogan che campeggiano nei titoli dei giornali, che risuonano dai canali tv pubblici e che si vedono un po’ ovunque: sulle facciate degli edifici e sulle bandiere che i panameñi fanno sventolare dalle loro case.

Ad un europeo o un americano del nord come Robert, queste espressioni cosi nazionaliste paiono strane, come pare strano l’inno nazionale cantato il lunedì nelle scuole, e i molti ‘desfiles’ che in varie occasioni (Día de la Patria, Día de la Liberación) si organizzano un po’ in tutto il Paese. Parate della gioventú panameña, agghindata in uniformi lucidate e armeggiante bandiere, gagliardetti, stendardi di tutti i tipi mentre un rollio di tamburi accompagna il tutto. Nelle scuole, cartelloni e inni alla Patria, benedizioni divine e altre invocazioni-preghiere e ringraziamenti che le varie classi preparano sotto la guida, attenta, degli insegnanti.

Il Paese è considerato sacro e intangibile e ogni osservazione o critica è considerata offesa ‘personale’. Parlando con la gente si nota una forte e diffusa avversione per tutto ciò che è ‘gringo’ (americano del nord) e una rabbia, ancora aperta e bruciante, per l’invasione statunitense..

Venire a invadere un Paese di tre milioni di abitanti, ad ammazzare gente innocente per prendere un narcotrafficante che loro stessi – George H.W. Bush- avevano messo Noriega. Robert mi disse che un panamense gli raccontava:

– Ricordo le bombe, ricordo i saccheggi dei magazzini, dei negozi. Il Paese era senza controllo.

– Ricordo che mi hanno portato in prigione e mi hanno dato un sacco di botte. Qualcuno non è più tornato a casa

– Noriega? Adesso se la passa bene, dicono che sia in una villa super-confortevole e protetta negli Stati Uniti.

Come giustificare però che la forza di Panama sta proprio – volenti o nolenti – nella forte influenza statunitense? A malincuore, qualcuno ammette che il ritorno del Canale a Panamá (31 dicembre 99) non ha rappresentato una vittoria e che forse sarebbe stato meglio fare la fine di Puerto Rico, ‘colonia’ americana nel Caribe.

L’impressione che se ne ricava è che questo popolo-bambino sia facilmente plagiabile e che la demagogia, qui più che altrove, sia un facile terreno. Qualcuno dice, ridendo, che durante l’invasione gli unici negozi non saccheggiati sono stati le librerie. Non si fatica a crederlo. Pochi leggono o viaggiano, ma quelli che possono mandano i figli a studiare in elitari colleges europei o statunitensi.

I ragazzi sotto i sedici anni non possono uscire alla sera dopo le otto ‘se non accompagnati da un adulto’: mi chiedo chi farà rispettare questo ‘coprifuoco minorile’. In un Paese che sembra autoritario, nessuno esercita realmente alcuna autorità. I giovani sembrano abbastanza rispettosi di regole, norme, ruoli e trascorrono il tempo in inviti reciproci per “la festa dei 15 anni’, in bigliettini di invito, nella scelta del vestito per la del diploma.  

É un Paese che adora le formalità, i certificati, i pezzi di carta, le dichiarazioni. Ma lo sfoggio è, come tutto, più apparente che sostanziale. Non fosse un popolo profondamente pacifico, la combinazione ignoranza-violenza sarebbe davvero esplosiva.

In occasione delle festività religiose è vietata la vendita di alcool e derivati. E tutti o quasi vanno alla Santa Messa e si dichiarano fedeli alla Chiesa cattolica romana. Anche la religione, come tutto il resto, è formale e si benedice tutto con la stessa compunta serietà: la pizzeria, il bambino, la banca. La famiglia è un valore in sé, ma molti hanno figli diversi da donne diverse. Che li mettono al mondo. “cuando Dios quiera“, (quando Dio Vuole). E tanti non vedranno mai una scuola!

L’unico vero interesse sembra essere il Sesso (con la S maiuscola). Tutti ci pensano e lo praticano con grande disinvoltura, ma tutto ciò che riguarda la sessualitá è censurato, proibito, nascosto. In molti luoghi di lavoro si vietano alle donne i pantaloni perché potrebbero suscitare… desideri morbosi. Molte sostengono che il “machismo’ è dilagante, però poi ammiccano con gesti e provocazioni sessuali in una perfetta complementarietà.

La vendita, emblema e simbolo del capitalismo, è quasi sempre gestita in modo casuale. Casuali gli ammassi di mercanzia nei negozi dove si vendono chitarre con lenzuola, quadri con biciclette, e dove non capisci mai il dove e il come. Se entri nessuno ti bada. Chi mangia, chi beve, chi si fa le unghie. Tutti pagano tutto a rate e tutti scrivono assegni. Quasi nessuno usa i contanti e tutti hanno paura dei ladri e delle rapine. E’ vero. Ho visto io personalmente un barista del bar nel porto rientrare al mattino sanguinante per una ferita al gluteo: non avendo trovato nulla nelle sue tasche dopo averlo spogliato, con lo stesso coltello gli tolsero la copertura d’oro di un dente. A me questo Paese appare più incasinato che violento.

L’esercito regolare è stato sciolto dopo i “fatti di Noriega” ma ovunque ci sono guardie private. La droga esiste, ma non è una ‘piaga sociale’ e non causa violenze quotidiane come in Europa. In fatti la percentuale dei ‘consumatori’ é bassa e non esiste l’eroina. Qualcuno mi spiega che è una scelta ‘di mercato’: i narcos preferiscono tenere tranquillo questo Paese dove possono “lavare” denaro in quantitá. E Panama é sicuramente un luogo dove si ‘blanquea dinero’ (pulisce denaro). E tanto. Lo vedi dalle molte società di prestiti (a tassi irrisori), alla potenza e al numero incredibile di banche, ai molti lussuosissimi hotel e ai grattacieli che nascono come funghi. I conti bancari sono intestati a società anonime ed è successo che su un conto sia transitato, per errore, un milione di dollari proveniente da chissà dove e diretto chissà dove. Con centomila dollari si ottiene la residenza senza bisogno di tanti papiri. E’ facile comprendere come qui, più che altrove, ci siano signori rispettabilissimi e sorridenti con condanne pendenti per omicidio, rapine, sequestri… Mi spiegano che se ‘stanno tranquilli’ nessuno li tocca e che l’ordine di espulsione viene dato solo se il governo d’origine fa forti pressioni, oppure se la DEA è sulle loro tracce.

Tutto si compra. La corruzione è capillare, diffusa, ma… allegra! “Tranquilo”, “Mañana”, “No se preocupe” sono le ‘frasi tipiche’. Capisco come la corruzione abbia una sua forte ragione logica: gli stipendi sono bassissimi e il costo della vita (e l’offerta di prodotti) è in proporzione decisamente alto. La gente in genere non ha grandi aspirazioni e lo scopo non è guadagnare, ma disfrutar, cioè godersela. Ho sentito di gente che, appena ritirata la quinzena (quindicina), non ritorna a lavorare. E quando finiscono i soldi, tornano, come se niente fosse, dal datore di lavoro. Mi chiedo, in un sussulto sindacalista, da dove comincerebbe Cofferati e successori…

Quantità enormi di birra circolano alla vigilia delle festività, che qui sono proprio tante. La città, come per incanto, si svuota. Vanno all’Interior, cioè nei territori interni di Panama (Las Tablas, Chiriquí) a trovare amici, parenti, in un’ubriacatura collettiva di birra, balli tipici e sesso a go-go. Panem et circenses: gli antichi Romani hanno fatto scuola nel mondo. Quando si riprende, la locura di sempre: code infinite, tranques (ingorghi) nelle poche strade cittadine e confusione ovunque. Se hai un appuntamento, un impegno, un orario da rispettare, devi pensarci per tempo. E se hai fretta… te la fai passare.

In un Paese che ha la stagione delle piogge, nessuno sembra attrezzato né abituato alla pioggia: l’escursione termica (giorno-notte ed estate-inverno) sarà di cinque gradi. Cioè tra i 25 e i 30 gradi tutto l’anno. Il calore non raggiunge mai i picchi delle estati europee, o nord-americane. Ma qui nessuno pare sopportarlo, anzi lo combatte con una feroce aria condizionata. Urlano e gridano con orrore infantile se vedono un ragno, uno scarafaggio. Neanche vivessero in Svizzera, inoltre il fatto di tornare al lavoro, dopo aver finito il denaro della paga, è una realtà vigente negli altri paesi sudamericani.

Raccontai a Robert che ebbi l’occasione di andare per il mio lavoro di skipper: in vari l Venezuela, Santo Domingo, Equador e in molte isole dei Caraibi. Tornando dalle Galapagos, isole che appartengono alla Columbia, in attesa di un volo per l’Europa rimasi per due giorni a Quito e ebbi il tempo vedere nelle vicinanze di Quito, capitale dell’Equador c’è una curiosità turistica: una rotaia di marmo posta sulla linea dell’Equatore, si chiama “la mitad del mundo “ e la gente ci va per farsi fotografare con un piede nell’emisfero boreale e l’altro in quello australe. E’ la linea di latitudine zero. Ora facile fotografare con lo Smartphone.

In tutt’altro contesto, nei pressi di Londra, a Greenwich, vi è una barra di ottone posta sulla linea del meridiano di Greenwich dove è possibile farsi fotografare con un piede nell’emisfero Est e l’altro piede nell’emisfero Ovest. Questa è la linea longitudine zero, che parte dal polo nord, attraversa l’equatore e tocca il polo sud.

Sono passati molti anni dal mio incontro con Robert, avevamo scambiato il numero di telefono, ma in quegli anni i cellulari non erano collegati con satelliti e non seppi come contattarlo e non so nulla del mio coetaneo.

Viaggio a Caracas, Venezuela, anno 1998

Devo raggiungere in aereo Puerto Santa Cruz, dove una barca a vela e il suo proprietario mi attendono. Parto da Milano per Caracas, la capitale del Venezuela, via Parigi, poi un volo interno mi porterà all’aeroporto vicino a Puerto Santa Cruz. Per motivi al momento inspiegabili l’aereo non attera a Caracas ma prosegue il volo a ovest di 500 Km. e atterra a Maracaibo. La hostess mi spiega che vi erano persone importanti che dovevano rientrare nella capitale dal fine settimana (pensai che la corruzione e la prepotenza dei politici qui è peggio che in Italia ) e mi preoccupai per la perdita del volo interno. A Caracas dovetti correre con lo zaino verso i voli interni ma per un minuto persi l’aereo. I cellulari erano agli inizi e il mio era inutilizzabile in sud America.

Cercare un telefono e le monete locali per usarlo persi mezz’ora ed era notte. Dovevo avvertire il cliente che sarei arrivato col primo volo del mattino. Presi un taxi e dovetti fidarmi del taxista per portarmi in un albergo vicino all’aeroporto. Mi andò bene e dopo 20 minuti approdai nella hall poco illuminata di uno stanzone più simile ad una taverna popolare che ad un hotel da una stella. Un tizio con i gomiti appoggiati sul bancone beve birra con altri tre persone con facce non molto raccomandabili. Mi accettò dopo il pagamento di una notte e mi assicurò la sveglia per il mattino alle 04 perché il volo interno per Puerto La Cruz di domattina parte alle 06.

Carico in spalla il mio pesante zaino e salgo nella stanza, dove un rombo intenso mi stordisce: apro la finestra e vedo fissato all’esterno, vicinissimo, l’enorme condizionatore il cui rumore assordante mi terrà sveglio tutta la notte. Scendo nello stanzone a piano terra prima di sentire la chiamata dell’albergatore. E’ il primo contatto con il caldo afoso del clima venezuelano. Poi il primo impatto nella villetta del cliente di origine italiana: un giardinetto con piccola piscina e un grosso SUV mi accolgono nella facciata. Dietro la casa un lungo balcone al quale è ormeggiata una magnifica barca a vela di 14 metri con bandiera austriaca.

Puerto la Cruz e una cittadina alla quale è annesso un villaggio comunicante col mare tramite una serie di canali navigabili. Il villaggio è recintato e due guardie armate sorvegliano l’entrata. La messa a punto della barca m’impegna per una settimana e cominciamo poi a stivare cibi e bevande.

Nel supermercato di Puerto la Cruz noto che gli scaffali sono pieni di articoli per bellezza, creme, dentifrici, ecc., pochi tipi di surgelati e alimenti vari, grande quantità di patatine fritte. Ho saputo dal mio cliente che il Venezuela è al primo posto al mondo per consumo di prodotti di bellezza; mi spiega la corruzione di ogni ufficio burocratico che funziona solo con regali e mance. Lui ha il conto corrente in dollari a Miami, la città americana più vicina al Venezuela e la corrispondenza con la sua banca era solo tramite corriere; la ragione? I postini rubano i francobolli !

Una settimana per mettere a punto la barca e poi partiamo verso le isole dei Caraibi. Non è la prima volta che porto barche ai Caraibi, ma partendo dal continente Sudamericano si hanno i famosi venti Alisei contrari alla nostra rotta. Molto più faticoso per una barca a vela e spesso bisogna usare il motore- Dopo una sosta di una settimana arranchiamo a motore, sempre con vento e onda contro verso le altre Grenadine. Lunga tappa a Bequia, poi San. Vincent, S. Lucia, indi Martinica. Certo, durante le lunghe soste nelle isole, anche se il caldo è eccessivo, vale la pena riposarsi in certe baie che sono di una bellezza mozzafiato. L’armatore, stanco di vento contro, decide di interrompere il programma e tornare in Venezuela, sognando di avere finalmente onda e vento al lasco al ritorno –

E allora l’Aliseo, maledetto, smette di soffiare, va in bonaccia. Soffia a solo 5 – 6 nodi. Pochi quando arrivano da poppa o dal lasco.

Procediamo a motore, perché l’armatore, velista principiante, non vuol saperne dello spinnaker, teme la grande vela colorata che fa camminare la barca anche con poco vento in poppa. Così proseguiamo a motore fino a Grenada. Altra lunga tappa di una settimana in attesa dell’Aliseo, che alla fine sembra riprendere fiato: salpiamo e finalmente il motore riposa assieme ai nostri timpani. La rotta per il Venezuela passa nei pressi di un gruppo di isolette : Islas Los Testigos (i Testimoni), abitate solo da pescatori. E’ notte e secondo il portolano il faro non è sempre funzionante.

Traccio la rotta passante a 5 miglia a est del piccolo arcipelago. Scorgiamo il faro circa 10 miglia avanti, un po’ alla mia destra . Bene, il faro funziona e ci indica che passiamo ad est delle isole, come da rotta iniziale; esiste nella zona delle Testigos una corrente molto forte e corre verso ovest e tenta di portarci contro le isolette. Orzo di altri 25° verso est dal gran lasco passiamo ad un’andatura di bolina larga-traverso. La barca acquista velocità e ci allontana da quel pericolo .

Finalmente mi sento sicuro perché il faro è sorpassato. Correggo sulla carta la rotta e procediamo verso Trinidad, uno Stato Caraibico, un’isola di un milione e mezzo di abitanti, un poco fuori rotta ma che vale la pena di visitare. Dopo una mezz’ora vedo a prua, a poche miglia, un fila di piccole luci lampeggianti sicuramente una rete pesca lunga almeno 5 miglia, che attraversa la nostra rotta.

Qualche imprecazione mi scappa, ma d’altronde i pescatori lavorano con le reti; e meno male che le segnalano con le luci ! Nuovo cambio di rotta per aggirare la lunga linea di luci che sembrano non finire mai. Navighiamo a vela un’altra oretta fuori rotta e finalmente sorpassiamo la catena di lucine stroboscopiche. Riprendo di nuovo la rotta, corretta naturalmente dopo aver avuto dal GPS il nuovo punto nave.

Ma le sorprese non sono ancora finite e nel buio la barca, con le vele gonfie rallenta di colpo: come se una mano del dio Nettuno spingesse delicatamente la prua indietro fino a che la barca si blocca, mentre le vele continuano a spingere nel silenzio che ora diventa inquietante. Per un secondo penso ai mostri marini, come i navigatori dei secoli scorsi pieni di paure per leggende tramandate da membri di equipaggi superstiziosi; forse la stanchezza si fa sentire, ma poi la mente mi dice che siamo incappati in un’altra rete, questa volta non segnalata. Impreco contro i pescatori.

E’ buio pesto: come uscire dalla rete ? Accendere il motore e forzare significa avere la rete attorno all’elica e di conseguenza bloccare il motore. Scendere sott’acqua al buio armato di coltello per liberare l’elica quando servirà il motore non è un’idea entusiasmante. Per un attimo mi sento un tonno preso in rete, ma mi ricordo che quella barca ha la deriva mobile e si può alzare anche la pala del timone.

Agire sui comandi idraulici è questione di 3 minuti: la barca spinta dalle vele lentamente comincia a muoversi, poi sembra addirittura che faccia un piccolo balzo, uno strappo e subito riprende la sua corsa veloce verso Trinidad. Sono felice, anche se sento dalla radio, il VHF di bordo, urlare parolacce in spagnolo: è il pescatore che probabilmente è a poche miglia presso il capo della lunghissima rete e sicuramente non aveva luci nemmeno sulla sua barchetta. Si è accorto che la rete è stata danneggiata. Una fermata a Trinidad di due giorni. Fine della dura crociera.

Partiamo da Las Palmas in tre persone e dopo 21 giorni di navigazione atlantica prendiamo terra in quattro . Sembra inverosimile? E’ accaduto.

Una telefonata il giorno 6 Dicembre 2006 : “Ho visto per caso il tuo sito internet: potresti entro due o tre giorni partire dalle Canarie per dare una mano a trasferire un catamarano ai Caraibi?” Decido di cogliere al volo questa opportunità ; chiuderò la mia carriera di lunghe navigazioni con una barca per me nuova : un catamarano da crociera. Chiamo Marco, armatore e skipper confermando la mia adesione.

Arrivo a Las Palmas, Gran Canaria, il giorno 9 Dicembre con un volo “last minute”.

In taxi al puerto deportivo: E’ buio e fatico a cercare e localizzare un catamarano di nome “Azul”,che è chiuso e a luci spente.

Affiancato c’è un catamarano gemello ” Cochis”, illuminato. Col cellulare chiamo il numero dello skipper di “Azul”, di cui conosco solo il nome, Marco. Ed è Marco che si affaccia in pozzetto col suo faccione allegro e la voce cordiale, un po’ roca dalle sigarette e l’accento milanese: “Sali Bruno, ti aiuto a portare il saccone a bordo, dopo cena ci spostiamo sul mio catamarano”. Conosco anche lo skipper del Cochis e il marinaio, un simpatico sardo, si chiama Emiliano e parla in romanesco: una miniera di battute divertenti.

Mi informano che i due catamarani viaggeranno in coppia per la traversata ai Caraibi. Mi sorprende il fatto che siamo in quattro con due imbarcazioni ma Marco mi assicura che sta aspettando due ragazzi da Viterbo, due giovani fratelli : saremo in tre per imbarcazione. La cabina che Marco mi assegna è quanto di più lussuoso io abbia trovato su una imbarcazione a vela. Come tutti i catamarani da crociera vi sono: quattro cabine doppie, ciascuna con bagno privato, doccia con acqua calda a volontà, (vi è un generatore diesel di corrente che fa funzionare il dissalatore). C’è anche un telefono satellitare. Ma veniamo al fatto. Arrivano il giorno dopo i due ragazzi di Viterbo: sono fratelli ( 34 e 35 anni)

Il mare è brutto, vi sono 35 nodi e onde notevoli : abbiamo tutto il tempo per fare cambusa e il mare ci permette di partire il 12 Dicembre. Massimiliano sarà a bordo di Azul, suo fratello Lamberto si imbarcherà su Cochis.

Dopo circa una settimana di navigazione in tandem, distanziati più o meno di tre miglia, lo skipper di Cochis cambia idea, non vuole più arrivare alle Antille, decide di fare rotta sulle isole di Capoverde, pensando di trovare maggiori probabilità di lavoro . Lamberto, non è d’accordo e vuole arrivare ai Caraibi col fratello e chiede a Marco di prenderlo a bordo. Non avevo mai visto un trasbordo di persona da una barca ad un’altra in pieno oceano: i due catamarani, in un giorno di calma di vento, ( l’onda lunga però fa ballare ancora ) si fermano ad una distanza di un centinaio di metri . Un gommoncino, senza motore, legato con una cima viene calato in mare: a bordo Emiliano che aiuterà Lamberto nel trasbordo assieme a bagagli e cambusa ( nella fattispecie un sacco di dieci Kg. di patate, una reticella di limoni e molto altro). Il moto ondoso oceanico rende vivace e impegnativo il trasbordo di Lamberto e merci varie. Altra lunga cima gettata da noi che Emiliano tiene mentre viene tirato verso Cochis dallo skipper mentre noi filiamo la nostra : arrivato ad un certo punto Emiliano è costretto a mollare la ns. cima e lui si atteggia a naufrago solo nel mare. Cominciamo a sfotterlo:” immigrato clandestino, se ti becca la guardia costiera di subito: “io no documenti “. Lui saluta con gesti ieratici mentre si ala sulla cima che lo lega alla barca su cui andrà a Capoverde, circa 160 miglia dal punto in cui siamo.

Ora siamo in quattro : il passatempo migliore, oltre ai turni di guardia, finchè il timone automatico funziona, è la pesca al traino; due canne da pesca poste alla distanza di circa sette metri, cioè la larghezza del catamarano, ci fanno pescare una media di 2 tonnetti o dorado al giorno, sempre alla velocità di sette od otto nodi; i primi giorni mangiavamo pesce cucinato in molti modi, ma poi, mangiare pesce ogni giorno stanca, si pesca per diletto e si ributta in mare la preda che continuerà a vivere.

Grande l’emozione nel tirare a bordo due Marlin, uno lungo due metri ( dalla punta della spada alle pinne di coda ). In questa occasione feci scoprire come uccidere il pesce issato a bordo senza farlo soffrire troppo ed evitare spruzzi di sangue : un goccio di rum o altro alcolico buttato nelle branchie o in bocca e il pesce muore all’istante.

Si guasta il pilota automatico cinque giorni prima dell’arrivo, ed i turni notturni al timone ora sono ben più impegnativi. Si guasta anche il generatore di corrente: si economizza l’acqua come sulle normali barche. Marco pensa che metterà un pompa a pedale per lavare i piatti con l’acqua di mare: per ora laviamo piatti e pentole a turno seduti sui gradini di poppa coi piedi in mare, sempre alla velocità media di 7 nodi. La voglia di un bagno di mare coglie tutti : buttiamo un cima in acqua con un paio di gasse e ci caliamo in mare a turno: un idromassaggio a sette nodi è così piacevole che non vogliamo pensare che potremmo essere noi l’esca per un predatore: lo squalo.

La meta è Tobago Cais, sicuramente il più bell’ancoraggio dei Carabi, dove buttiamo l’ancora il 2 Gennaio 2007 : file di catamarani sono ancorati fra questi isolotti di sabbia bianchissima ed i colori del mare attraggono irresistibilmente. L’ultima volta che gettai l’ancora a Tobago Cais c’erano solo poche barche tradizionali. Ora sono a dozzine. Quasi tutte stazionano per tutto l’anno alla Martinica e sono di proprietà di compagnie che noleggiano a gruppi di persone da skipper volontari arrivano alla Martinica in aereo, passano qualche settimana fra le isole e poi rincasano in aereo. Vedi foto varie sul mio sito. Noi, dopo la traversata facciamo due settimane di navigazione con soste lunghe risalendo controvento da Union alla Martinica.

Prima di partire una cena di addio con l’equipaggio: sarà per me un lieto e ottimo ricordo l’allegria di Marco, la prorompente vitalità di Massimiliano, la saggezza, la generosità e le capacità veliche di Lamberto. Durante la navigazione, oltre a festeggiare il Natale con panettone, abbiamo festeggiato il mio 75° compleanno con spumante e il capodanno 2007 con polenta (precotta ovviamente) e cotechino, come da vecchia tradizione lombarda.

Bruno Roversi